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Iran: le illusioni incrociate dei riformisti e dei radicali anti-regime

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Intervenendo il 18 maggio ad una assemblea di reduci della guerra Iran-Iraq, l’ex presidente Khatami ha lanciato un accorato appello a favore della riconciliazione nazionale esortando in particolare a un “perdono incrociato” fra la Guida suprema (Khamenei) e il popolo iraniano: “Se vi sono state ingiustizie commesse nei confronti del sistema e della sua leadership, perdonateli per amore del futuro, e la nazione da parte sue perdonerà le ingiustizie che sono state commesse nei suoi confronti e nei confronti dei suoi figli”.

La presa di posizione di Khatami, resa nota a distanza di qualche giorno dal momento della sua formulazione, ha suscitato un aspro dibattito in seno alla società iraniana, sia all’interno del paese che nella diaspora. Alcuni si sono immediatamente scagliati contro Khatami, manifestando sorpresa e disappunto per questo suo appello e accusandolo di dimenticare che Khamenei ha le mani insanguinate; altri fanno invece notare che in varie situazioni storiche di uscita da regimi oppressivi, come quella sudafricana, si sono attuati meccanismi di riconciliazione, e che prima o poi in Iran andrà comunque avviato un processo di dialogo nazionale.

Va detto che la sorpresa per questa presa di posizione di Khatami non sembra affatto giustificata. Khatami non ha mai avuto come obiettivo la distruzione del regime islamico, ma piuttosto un suo miglioramento teso a renderlo più aperto e più rispettoso dei diritti dei cittadini. D’altra parte, non è proprio questa la definizione di riformismo? Per tracciare un possibile parallelo, Khatami è sempre assomigliato al “Gorbaciov Fase 1” (quello che cercò di salvare il sistema sovietico introducendo glasnost e perestroika), e non al “Gorbaciov Fase 2” (il quale arrivò a un certo punto alla conclusione che il sistema non poteva più essere salvato e ne accettò la liquidazione senza scatenare la violenza dello stato contro le forze del cambiamento).

Per la verità, Khatami non sembra essere isolato in questo suo atteggiamento. Ma davvero qualcuno può credere che le centinaia di migliaia di cittadini che protestavano nelle strade di Teheran nel 2009 fossero tutti liberaldemocratici laici contrari alla Repubblica islamica? Qualcuno di loro certo lo era, ma molti (e direi molto più numerosi) chiedevano una Repubblica islamica migliore e più dignitosa.

Possiamo anche pensare che si tratti di un’illusione, e probabilmente non pochi sono quelli che, a seguito della repressione scatenata dal regime, sono arrivati alla conclusione che l’opzione riformista è in effetti illusoria. Eppure dovremmo evitare comunque di semplificare la complessità e la varietà delle opinioni politiche tra gli iraniani.

Non dovremmo nemmeno sorprenderci del fatto che l’appello di Khatami sia ispirato al pragmatismo, a uno spirito di compromesso e a una preoccupazione di preservare la non-violenza nella protesta dei cittadini. Gli iraniani non sono certo impazienti di poter perseguire la democrazia “in stile iracheno” o “alla libica”. Chi potrebbe biasimarli, sia dal punto di vista morale che da quello del realismo politico?

L’appello di Khatami è quindi tutt’altro che inspiegabile, e nemmeno è ambiguo dal punto di vista morale: è però politicamente sbagliato. In primo luogo, è molto dubbio che oggi via sia qualcuno all’interno del regime capace di recepire un’offerta di dialogo con chi protesta e chiede una trasformazione del sistema in senso democratico.

Anzi, il regime sta applicando una dura repressione anche nei confronti di personalità politiche che, come Khatami, si situano pienamente all’interno del contesto ideologico della Repubblica islamica.  I personaggi al vertice del regime, da parte loro, non sono “conservatori”: sono reazionari. Ecco perché sarebbe un errore tragicomico se il Movimento Verde fosse tentato, in una versione scadente di machiavellismo politico, dall’idea di schierarsi con Ahmadinejad nell’attuale tesa polemica fra lui e la  Guida suprema. Al vertice del regime vediamo oggi divisioni reali, ma non vediamo interlocutori per  un discorso anche minimalista in tema di libertà e diritti umani.

In secondo luogo, l’idea che la Guida suprema dovrebbe “perdonare il popolo” appare del tutto bizzarra, dato che implica che il popolo dovrebbe da parte sua chiedere scusa al regime per avere osato protestare. Non vi eè alcuna simmetria – né logica, né politica, né morale- fra l’oppressore e gli oppressi. Quello a cui abbiamo assistito in Iran non è una guerra civile, ma l’applicazione unilaterale della violenza da parte di un regime contro i propri cittadini.

In terzo luogo, anche se è vero che il momento della riconciliazione finisce per arrivare (come nella Spagna post-franchista e nel Cile post-Pinochet), si tratta di un momento che giunge dopo, e non prima,  della sconfitta dei regimi non demoratici, per costituire una componente essenziale della ricostruzione politica e morale della società. Sarebbe quindi del tutto prematuro parlare di una “commissione per la verità e la riconciliazione” in Iran.

Vi è da sperare, in ogni caso, che la proposta di Khatami, per quanto politicamente improponibile, risulti utile per fare chiarezza. Anche se la non-violenza rimane un’opzione senza alternative (si tratta di un punto di forza del movimento democratico, non di una debolezza), la protesta della società civile dovrebbe ora tradursi in modo più esplicito in organizzazione politica. Ciò richiederà una definizione più esplicita di quello che gli attivisti della democrazia propongono al popolo iraniano in termini di assetti costituzionali (ivi compreso il ruolo della religione), le politiche sociali ed economiche, la politica estera. Gli iraniani ormai non chiedono soltanto “Dov’è il mio voto?”. Chiedono anche “Che cosa è il mio paese? Che cosa diventerà?”.

È vero, il riformismo iraniano è in un vicolo cieco di fronte a un regime tutt’altro che disposto ad accettare dialogo e compromesso. Ma i radicali anti-regime stanno messi anche peggio. Come si può immaginare, infatti, di rovesciare un regime che ha ancora una certa forza ideologica, radici populiste in non meno di un quarto/un terzo della popolazione, e che soprattutto può contare sulla forza armata, quella dei Pasdaran? A peggiorare la situazione c’è il fatto che una parte dell’attuale establishment è consapevole di non poter conservare in futuro alcun peso politico e alcun privilegio economico se il regime dovesse cadere.

Ma se l’insurrezione e la riforma sono entrambe impossibili, che fare? Forse l’unica opzione che rimane è quella che Gramsci ebbe a definire come “rivoluzione passiva”: una rivoluzione che in realtà non è affatto passiva, ma comporta la delegittimazione e il superamento di un regime. È cioè un processo culturale e politico di crescita, all’interno del sistema, di una diversa “egemonia”: una strada certamente più lunga di quella delle insurrezioni tunisina ed egiziana, ma anche più solida e alla fine più politicamente sostenibile. Per percorrerla, sarà necessario che il Movimento Verde esca dalla indefinizione di chi è in grado di raccogliere vasti consensi nella protesta e nella generica richiesta di cambiamento, ma non ha ben chiaro se questo significhi cambiamenti nel regime o del regime. Un movimento, cioè, che è troppo radicale per la riforma e troppo moderato per un cambiamento radicale.  Che ha dirigenti che continuano a rendere omaggio a Khomeini e alla “rivoluzione buona”, e aderenti molti dei quali ormai sognano soltanto di potersi liberare da qualsiasi possibile versione della Repubblica islamica.