La lotta politica all’interno del regime iraniano non è certo una novità. Fin dall’inizio, come del resto succede in tutti i regimi rivoluzionari, diverse tendenze e correnti si sono confrontate, scontrate, a volte fino all’eliminazione.
Il confronto verte sul potere e sulla forza (qualche osservatore americano ha scritto sinteticamente: “guns and money”), ma – data la natura del regime e la sua stessa identità – si traduce inevitabilmente in chiave ideologica. E, nella Repubblica Islamica, anche religiosa.
Mahmoud Ahmadinejad è stato chiaramente “inventato”, nel 2005, dal Leader supremo Khamenei in funzione anti-riformista, e soprattutto (dato che comunque il riformismo “khatamista” era già in forte declino di egemonia e consensi) anti-Rafsanjani. L’allora oscuro e poco carismatico sindaco di Teheran è stato proiettato sulla scena politica nazionale con l’implicita condizione che il suo ruolo sarebbe stato, di fatto, quello di un primo ministro in una repubblica presidenziale, senza pretendere di intaccare il potere del vertice politico-religioso, il rahbar.
Il chierichetto, però, fin dall’inizio si è creduto prete, e fin dall’inizio le tensioni con Khamenei non sono mancate. Tensioni finora piuttosto facilmente assorbite nell’interesse superiore della sopravvivenza del regime, obiettivo numero uno della oligarchia politico-religiosa dominante.
Oggi le cose sembrano cambiate, e lo scontro sembra diventato più profondo, più aperto, e anche non privo di un potenziale rischio di instabilità per il regime stesso.
Che le cose siano cambiate è dimostrato dal fatto che il terreno della polemica si sia spostato dal concreto (nomine o rimozioni di ministri non gradite al Leader supremo, tensioni fra il governo e il parlamento in tema di bilancio statale) all’ideologico, e persino alla dimensione religiosa, riferimento obbligato del regime islamico.
Questa escalation teologico-politica non è la sostanza, di certo, ma è un segnale inconfondibile del livello dello scontro.
Partiamo dalla sostanza. Si è già aperta la lunga corsa per la successione di Ahmadinejad, che, avendo ricoperto già due mandati, non potrà ripresentarsi alle elezioni presidenziali del 2013. Chiaramente Khamenei non è favorevole alla scelta di un successore che sembra essere già stata fatta da Ahmadinejad nella persona di Esfandiar Rahim Mashai, attualmente suo capo di gabinetto. Mashai è inviso al Leader supremo, e ai conservatori “tradizionali” del regime per certe sue controverse dichiarazioni che vengono interpretate (va detto, a ragione) come segnale di un disegno politico molto preoccupante per il rahbar, per il clero in generale, e per la dottrina del velayat-e-faqih (il principio della “guida del massimo giureconsulto”). Mashai ha più volte fatto scalpore, in passato, per dichiarazioni poco ortodosse come: “noi vogliamo seguire il modello iraniano, non il modello islamico” oppure “siamo contro il sionismo, ma siamo amici del popolo israeliano”. Gli si attribuiscono inoltre intenzioni, che gli oltranzisti ritengono pericolose, che vanno in direzione dell’apertura di un dialogo (in una prima fase informale e “sotterraneo”) con gli americani. Come se non bastasse, sembra che non manchi allo scontro una dimensione economica, con una forte concorrenzialità fra diverse “cordate” industriali che, in un sistema corporativo come quello iraniano, hanno sempre un preciso riferimento all’interno del regime.
Ma come può essere definito il progetto politico di Ahmadinejad e Mashai?
Non va innanzitutto dimenticato che una delle ragioni della elezione di Ahmadinejad nel 2005, e dell’appoggio che continua a riscuotere, ancora consistente (anche se non sufficiente a vincere onestamente le presidenziali del 2009 al primo turno), è il fatto che, pur essendo personalmente iper-religioso, non è un mullah.
L’Iran è un paese fortemente religioso per tradizione e cultura, ma ormai fortemente anticlericale. Il clero sciita, una volta vicino alla gente comune – e di qui l’interesse delle sinistre, nella loro strategia rivoluzionaria pre-1979, di prenderli strumentalmente a bordo – è oggi identificato con il potere, con il privilegio, con la repressione.
È qui che emergono questioni teologiche di fondo che finora erano rimaste sotto traccia, e oggetto di dibattiti interni soprattutto fra le varie scuole di pensiero religioso. Oggi in Iran vi è uno scontro aperto fra clericali e “messianici”.
La rivoluzione del 1979, nata come tarda rivoluzione di sinistra, venne ben presto dirottata, grazie soprattutto al grande carisma e alla grande abilità politica di Khomeini, in una rivoluzione clericale, e non solo religiosa.
La chiave di volta del regime divenne ben presto, con l’approvazione della Costituzione, la figura del rahbar, il Leader supremo, e il suo ruolo di guida, velayat. Venne subito a configurarsi, qui, una questione politico-teologica centrale. Con una innovazione che per alcuni alti esponenti del clero sciita era poco meno che eretica, Khomeini elaborò una dottrina che si staccava dalla ortodossia sciita nella misura in cui metteva in sordina l’essenza sia messianica che apocalittica dello sciismo. Nello sciismo ortodosso il Dodicesimo iman, il Mahdi, non è morto, ma è “occulto” (dal IX secolo) e dovrà un giorno tornare per portare alla terra pace e giustizia. Fino a quel momento, il potere non può certo essere considerato “islamico”, ma al massimo uniformarsi il più possibile alle indicazioni del clero in materia di shari’a. In altri termini, l’ayatollah ortodosso è Sistani, in Iraq, con la sua versione quietista dello sciismo.
In questa agitata primavera del 2011 la lotta senza esclusione di colpi in vista della successione di Ahmadinejad è tornata a fare pubblicamente emergere questo nodo centrale. Per fermare la corsa di Mashai verso la presidenza sembra che siano stati usati anche i servizi segreti. Lo scontro sul ministro dell’Intelligence, Heydar Moslehi, viene sempre più insistentemente attribuita al fatto che avrebbe autorizzato intercettazioni contro il “delfino” di Ahmadinejad, che lo ha licenziato in tronco per dovere poi piegarsi al diktat del Leader supremo che ha invece espresso la piena fiducia nei confronti di Moslehi e ha obbligato Ahmadinejad a inserirlo di nuovo nella sua compagine ministeriale.
La radicalità dello scontro è arrivata ben al di là di questo episodio, con una polemica sempre più feroce della maggioranza degli organi di stampa del regime (pochi sono quelli che sono rimasti sulla linea del presidente) nei confronti di quella che viene definita “la squadra perversa”. Il vice-rappresentante del Leader supremo presso la Guardia rivoluzionaria (cioè i pasdaran), ha sfoderato l’accusa – estremamente pesante nel contesto del regime iraniano – di non credere al velayat-e-faqih. Si tratta dell’equivalente, per fare un parallelo con il regime sovietico, all’accusa di essere contrari alla dittatura del proletariato. E, rivelando il fondo della questione, ha aggiunto: “Vogliono l’Islam senza il clero”.
Ancora più inquietante per il presidente e i suoi alleati è il fatto che l’ayatollah che era considerato suo “padrino spirituale”, l’ultraradicale Mesbah Yazdi, ha lanciato, con chiaro riferimento alla corrente politica del presidente, un pesante anatema: “Opporsi al velayat-e-faqih significa opporsi agli imam e significa apostasia”.
Messianismo di Ahmadinejad e clericalismo di Khomeini sono ormai chiaramente ed esplicitamente in un contrasto difficilmente sanabile. In parlamento un deputato anti-presidente si è recentemente espresso in questi termini: “La squadra perversa ha fatto appello a Satana e crede di non avere bisogno del velayat-e-faqih dato che riceve gli ordini direttamente dal Mahdi. Non crede che la nostra sia un’era di obbedienza al velayat-e-faqih, dato che è il momento del ritorno del Mahdi”.
Non saranno certo queste dispute teologiche di sapore medievale a risolvere la fondamentale questione del potere apertasi all’interno del regime iraniano. Il contesto internazionale, la sfida di una richiesta democratica resa ancora più attuale dall’esempio della primavera araba, i nodi dell’economia, le scadenze della corsa presidenziale saranno il vero terreno dello scontro. Ma sarebbe un errore non considerare il peso della dimensione teologico-politica in un regime che sempre è stato schizofrenicamente con un piede nel presente e uno nel passato più arcaico.