Uno dei temi centrali del recente G20 economico di Parigi è stato quello della possibile riforma del sistema monetario internazionale. Nonostante la necessità di una riforma sia condivisa, non esiste accordo sui contenuti né sulla direzione da intraprendere. Il problema principale è rappresentato dallo squilibrio creato dal tasso di cambio cinese, mantenuto artificialmente basso dalle autorità di Pechino per favorire le esportazioni.
Il governatore della Federal Reserve Bernanke e il Segretario all’Economia Geithner hanno auspicato un rialzo del tasso di cambio cinese. Secondo il governatore della Banca Centrale Cinese Zhou Xiaochuan il problema non risiede nel tasso di cambio cinese ma nell’attuale, ormai obsoleta, struttura del sistema monetario.
Questa dichiarazione non è il primo segnale di insoddisfazione nei confronti dell’attuale architettura finanziaria e monetaria globale. Prima del vertice di Washington dello scorso gennaio, Hu Jintao ha definito il sistema basato sul dollaro un’eredità del passato. Già nel 2009, lo stesso Zhou aveva sostenuto che “la crisi recente riflette l’intrinseca vulnerabilità e il rischio sistemico nel presente sistema monetario internazionale”.
La soluzione proposta dal governatore cinese prevede la creazione di una valuta internazionale di riserva non legata ad un singolo stato, capace di mantenere la stabilità nel lungo periodo.
L’idea non è nuova. Già Keynes negli anni Quaranta aveva proposto una soluzione simile. Nel 1969 il Fondo Monetario Internazionale ha poi istituito gli SDRs (Special Drawning Rights) come valuta di riferimento. Tuttavia, questa “valuta internazionale” – un paniere di dollari, euro, sterline e yen – non è mai stata utilizzata in modo estensivo e, soprattutto, non ha mai intaccato il primato del dollaro.
Secondo Zhou, gli SDRs dovrebbero essere ancorati alle valute delle “maggiori economie”, in proporzione alle loro dimensioni, ed essere utilizzati come riserva. Sostanzialmente, viene auspicata una maggiore centralità del renminbi, arrivando a creare un “sistema plurale” molto diverso dall’attuale.
Secondo un recente report del think tank londinese Chatham House, l’evoluzione in senso plurale del sistema monetario sarebbe non solo possibile ma costituirebbe un fattore di stabilità.[1] Un mondo economicamente multipolare avrebbe bisogno di un sistema basato su diverse valute di riserva e di nuove forme di cooperazione. Il declino relativo degli Stati Uniti e l’ascesa cinese avrebbero generato tensioni che sono risolvibili solo riformando il sistema di governance economica globale.
Questa ipotesi ha generato un vasto dibattito tra gli esperti. I punti critici sono essenzialmente due. Un sistema con diversi fornitori di beni pubblici, come la moneta di riferimento, può funzionare in modo efficiente? Inoltre, la Cina e il renminbi sono in grado di svolgere questo ruolo?
Il primo punto è essenzialmente teorico, anche se porta con sé evidenti ripercussioni pratiche. Generalmente, economisti e politologi tendono a sottoscrivere l’affermazione di Charles Kindleberger secondo la quale “per avere un’economia mondiale stabile è necessario un unico stabilizzatore”. Quindi, in campo economico, è necessario un unico attore in grado di fornire la valuta di riferimento e garantire apertura e stabilità dei mercati.
Tuttavia, si può anche sostenere che un’adeguata struttura istituzionale e la cooperazione di un numero ridotto di attori possono garantire stabilità finanziaria e apertura dei mercati anche “dopo l’egemonia”. Non è detto, insomma, che sia indispensabile uno stabilizzatore unico.
Il secondo punto in questione riguarda la capacità della Cina e della sua valuta di affiancare il dollaro come “valuta internazionale”. Un eventuale sorpasso cinese in termini di PIL non costituirebbe, di per sé, una ragione per mettere fine all’attuale sistema. L’ascesa verso il primato economico, infatti, è una condizione necessaria ma non sufficiente. A testimoniarlo c’è il precedente storico della transizione tra il sistema basato sulla centralità della sterlina e l’era del dollaro.
Gli Stati Uniti sorpassarono la Gran Bretagna in termini di PIL nel 1870. Ciò nonostante il sistema allora vigente rimase in vigore fino alla Seconda Guerra Mondiale. Fino alla Prima Guerra Mondiale, il ruolo internazionale del dollaro è stato marginale, nonostante il primato economico americano. Questa marginalità era il riflesso di una marcata inadeguatezza istituzionale. Fino al 1913, anno di approvazione del Federal Reserve Act, gli Stati Uniti non avevano una vera e propria banca centrale. La “Prima Banca degli Stati Uniti” voluta da Alexander Hamilton era stata abolita nel 1811, la Seconda Banca era stata formalmente chiusa da Andrew Jackson nel 1836. L’avversione ideologica nei confronti delle istituzioni federali e il potere di veto degli stati aveva impedito la creazione di un’autorità monetaria federale indipendente. Gli oppositori della banca centrale vedevano nella nuova istituzione una concentrazione di potere eccessiva e un fattore di crescita del debito.
Solo dopo la crisi economica del 1907, il Congresso autorizzò la creazione della Federal Reserve. Da quel momento in poi gli Stati Uniti iniziarono a sviluppare le precondizioni essenziali per espandere il ruolo internazionale del dollaro, fino a diventare il perno del sistema nel secondo dopoguerra.
In modo analogo, la Cina di oggi, oltre a continuare a crescere, dovrebbe intraprendere una serie di riforme mirate a rendere più solida la propria infrastruttura istituzionale. Il ruolo di moneta di riferimento del sistema presuppone, infatti, un elevato grado di apertura finanziaria, il controllo dell’inflazione e un’elevata capacità di reagire agli shock esterni.
Ad oggi, il sistema politico-istituzionale cinese non è in grado di garantire questi standard. In primo luogo, il renminbi non è ancora una moneta pienamente convertibile. Inoltre, il tasso di inflazione non è pienamente sotto controllo e non esiste un mercato obbligazionario comparabile con quello americano.
Il vero tallone d’Achille per la Cina, tuttavia, è la gestione del credito, ovvero il sistema bancario e il settore finanziario. Quest’ultimo, anche se in notevole espansione, è ancora limitato e inefficiente. I flussi di capitali sono soggetti a notevoli restrizioni. Il sistema legale è inadeguato alle esigenze di un’ economia di mercato e impedisce un’efficiente protezione degli investimenti, mentre il tasso di corruzione è molto elevato.
Il sistema bancario, caratterizzato dalla presenza di quattro principali istituti di credito statali, affiancati da banche private minori, è ugualmente fragile e condizionato dalla commistione tra politica ed economia.
Questo sistema ibrido poggia sulla non convertibilità del renminbi e sul controllo dei flussi di capitali. La convertibilità e la liberalizzazione porterebbero ad una fuga di capitali verso mercati più sicuri e con rendimenti più elevati, causando una seria crisi dell’intero sistema economico. Inoltre, la mancanza di trasparenza non permette un equilibrio stabile tra livello di rischio, tassi di interesse e prezzi, rendendo l’intera struttura creditizia intrinsecamente fragile.
Questi ostacoli sembrano molto più difficili da superare rispetto a quelli affrontati dagli Stati Uniti all’inizio del Novecento. Le riforme necessarie presuppongono un minore coinvolgimento del partito e dello stato nell’economia, il rafforzamento della rule of law e la protezione dei diritti degli investitori. Questi passaggi appaiono in netta contraddizione con alcune delle caratteristiche fondamentali del modello di sviluppo cinese – quali il controllo politico dell’allocazione del credito, che è tuttora funzionale alla guida delle scelte produttive di lungo periodo.
Alla luce di queste considerazioni, nel breve e medio periodo non sembrano realizzabili alternative credibili alla centralità del dollaro sul piano globale.
[1] Paola Subacchi and John Driffill “Beyond the Dollar Rethinking the International Monetary System” Chatham House Report http://www.chathamhouse.org.uk/files/16146_r0310_ims.pdf