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Il sollievo di Obama

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L’Egitto, dopo le dimissioni di Hosni Mubarak, sembra tornato al 1952: l’esercito, attore chiave della vita politica, ha assunto la guida del paese attraverso un Consiglio supremo di Difesa nazionale. Si è trattato di una sorta di coup militare, guidato dal Ministro della Difesa Hussein Tantawi e realizzato non con le armi ma con una pressione politica venuta dalla piazza e che ha coinvolto gli Stati Uniti. E ora?

Tre pensieri rapidi, nelle prime ore dell’Egitto post-Mubarak. Primo: le dimissioni del rais hanno salvato anche Barack Obama, che aveva rischiato molto decidendo di lasciare cadere un alleato storico degli Stati Uniti. Se, nonostante il discorso di Obama del 10 febbraio, Hosni Mubarak fosse rimasto al suo posto, la Casa Bianca avrebbe dimostrato di non avere più alcuna influenza nello scenario mediorientale. Non è così. Adesso, tuttavia, si apre una seconda e difficile sfida: il presidente americano deve dimostrare, a Israele anzitutto, di non avere silurato Mubarak per perdere l’Egitto. Le prime mosse dei militari – la conferma dei Trattati internazionali del paese – aiutano Washington.

Secondo, rapido punto: l’Egitto potrà oscillare fra uno scenario Turchia 1 (la fase kemalista, con l’esercito quale garante della laicità dello Stato) e uno scenario Turchia 2 (la democrazia islamica, con i Fratelli Musulmani al posto dell’AKP). Gli esperti sottolineano – e giustamente – tutte le false analogie fra Egitto e Turchia. Ma è uno schema di riferimento utile anche nelle sue implicazioni internazionali: nello scenario “kemalista”, l’Egitto resterebbe vicino agli Stati Uniti e in pace con Israele; quale democrazia islamica, l’Egitto guarderebbe piuttosto verso la Turchia di Erdogan e avrebbe una relazione più difficile con Tel Aviv. È un dilemma complicato da gestire per Obama, che ha appoggiato il ruolo dei militari nell’esautorazione di Mubarak; ma che dovrà anche sostenere l’evoluzione democratica del principale paese del mondo arabo. In altri termini: interessi e valori degli Stati Uniti, di fronte al dilemma egiziano, non coincidono. Almeno a breve termine.

Terzo: l’elite militare egiziana si è per anni opposta a riforme economiche e politiche, sostenendo che avrebbero eroso il potere del governo centrale. È uno dei rari casi in cui WikiLeaks ha dato informazioni utili. In un telegramma americano dal Cairo del 2008, viene citata la tesi di Tantawi secondo cui le riforme economiche avrebbero aumentato l’instabilità sociale, riducendo il controllo sui prezzi dei beni primari. Non è che la conclusione sia totalmente infondata. Ma è priva di un pezzo essenziale: l’instabilità sociale è aumentata perché è mancata qualunque forma di redistribuzione sociale, in un contesto in cui l’esercito ha occupato parte dell’economia (e gran parte degli aiuti americani). Ciò che ha davvero motivato la protesta egiziana è stato questo “apartheid” economico. Vedremo in che modo i militari egiziani sapranno tenerne conto.

Sul piano politico, il Consiglio supremo di Difesa deve decidere, dopo avere sospeso la Costituzione e sciolto il Parlamento, come e in che tempi arrivare a future elezioni (apparentemente rinviate all’autunno prossimo). Mantenere il controllo del potere, ma avviando una qualche prospettiva democratica, è la sfida centrale per l’esercito egiziano: dopo le proteste della piazza, un ritorno puro e semplice al 1952 non è più pensabile.