Quasi tutti i media hanno salutato come deludenti i risultati del Summit del G20 a Seul. Il giudizio presuppone che si stabilisca un confronto: deludenti rispetto a chi o a che cosa? Se la delusione nasce dalle attese che l’incontro portasse a un accordo su come affrontare gli squilibri delle bilance estere e far cessare la “guerra delle valute” oppure a prendere impegno di incorporare nelle legislazioni nazionali le nuove regole del Financial Stability Board per porre al riparo i mercati finanziari dalle crisi sistemiche, l’attenzione va spostata sulla fondatezza di queste attese e non sui risultati del Summit.
Gli accordi non sono “mancati”; sono mancati i presupposti affinché si potessero realizzare. Ciascun capo di Stato aveva i suoi problemi politici interni da risolvere che non coincidono né nei contenuti, né nei tempi di soluzione con quelli degli altri. La Cina non può accettare di rivalutare lo yuan-renminbi perché non vuole correre rischi di un abbassamento del saggio di crescita reale e dell’occupazione che porterebbero a disordini sociali sui quali il resto del mondo non ha certo interesse si concretino. E anche perché i gruppi dirigenti cinesi devono fronteggiare la crescita delle spinte nazionaliste contrarie ad alleanze o concessioni unilaterali al resto del mondo. Come già avvenne per il Giappone, prosperano le idee pericolose che la Cina può fare da sola, ossia prescindendo dagli effetti che le sue scelte determinano nel resto del mondo. Gli Stati Uniti di Obama sono alle prese con una crisi di crescenza che ha radici profonde nel suo modello di sviluppo basato sui consumi, al quale pretende di sostituire come motore le esportazioni. Questo tentativo modifica alla radice il modello di sviluppo globale – dove, per dirla con semplicità, gli americani consumano e gli altri producono ed esportano – causando contrasti politici internazionali.
La Germania (ma anche l’Olanda) nasconde il suo surplus di bilancia estera tra le pieghe del Trattato di Maastricht, data l’intangibilità del valore dell’euro in ambito intraeuropeo, e sposta l’attenzione sugli eccessi di finanza pubblica che, contrastando la rivalutazione dell’euro, aiutano lo sviluppo delle sue esportazioni. Non a caso la Signora Merkel si è trovata in contrasto con Obama e a fianco di Hu di fronte alla proposta americana di porre un limite massimo agli avanzi di bilancia estera. Gli altri componenti del G20 sono tutti alle prese con diversi o analoghi problemi. Ad esempio Regno Unito e Canada hanno un deficit di bilancia, l’India un’inflazione galoppante e i paesi dell’euroarea un’elevata disoccupazione. È difficile mettere insieme una compagine così eterogenea, se i partecipanti non sono disposti a individuare il minimo comune interesse, rinunciando agli egoismi nazionali che non portano da nessuna parte.
In linea di principio, il passaggio dal G8 al G20 doveva marcare l’elevazione dello standard di interesse politico del Summit rispetto alle sue origini prevalentemente economiche. Il DNA di una istituzione non è facile da smemorizzare, ma va osservato che, in passato, i Summit erano il luogo della convergenza, mentre oggi sono quelli che registrano la divergenza. Con danni di immagine per i partecipanti e fonti di instabilità per i mercati. Qualcuno ha riproposto il quesito se essi sono ancora utili agli Stati, oltre che esserlo alle esibizioni dei no-global, dimenticando il vecchio saggio principio che, se si sta seduti attorno a un tavolo, non si muovono le armate. In questo caso esse muoverebbero guerre moderne, le infowar, le guerre delle informazioni, che producono danni ben più gravi e in modo subdolo di quelli causati dalle guerre guerreggiate.
Al di là dei confitti di interesse economico, alla base degli insuccessi vi è carenza di analisi e, quindi, di obiettivi. I paesi del mondo hanno sviluppato al loro interno un incisivo dibattito sulla giustizia sociale, che non riescono però a esportare fuori dai confini proponendo i risultati come fattore di convergenza politica. L’approccio altruistico ai problemi nazionali si trasforma nei rapporti globali in approccio egoistico, allontanando le prospettive di un miglioramento della cooperazione internazionale. Ciò avviene anche in aree, come quella europea, dove il processo cooperativo dovrebbe essere la tendenza naturale del sistema istituzionale, mentre ha preso una direzione diversa, fino a divenire talvolta inversa: in assenza di spirito cooperativo le regole divengono sempre più stringenti, lo sviluppo ristagna e il consenso all’idea di Europa si riduce.
Manca un serio dibattito sulle relazioni tra giustizia sociale nazionale e giustizia “dei popoli” (secondo una nota definizione di John Rawls). In un assetto istituzionale nel quale gli scambi globali conducono a un’integrazione crescente, le due cose non possono marciare indipendenti. O si converge verso un comune benessere e comune stato di diritto, oppure staremo tutti peggio e presto o tardi qualcosa di grave accadrà nelle relazioni internazionali. Eppure le esperienze recenti di fruttuosa cooperazione tra i paesi membri del G20 in occasione dei momenti di più intensa crisi finanziaria mondiale dovrebbero aprire gli occhi sul fatto che ci si deve incontrare per convergere e non per registrare i contrasti. L’auspicio è che i Capi di Stato prediligano uno scambio telefonico di verifica di una possibile convergenza, con gli sherpa dediti a questo compito, piuttosto che incontrarsi in volo senza paracadute.