international analysis and commentary

I dilemmi di Obama tra Pax asiatica e ordine globale

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Il viaggio in Asia di questo novembre 2010, il più lungo di Obama dall’inizio della sua presidenza, è stato rappresentato dai media sotto molteplici prospettive. Quella del break dai problemi domestici dopo la sconfitta alle elezioni di medio termine; la prospettiva della priorità “asiatica” del first Pacific President; la rivalutazione delle “democrazie” (i quattro paesi visitati – India, Giappone, Indonesia e Corea del Sud – sono appunto regimi democratici) per bilanciare la realpolitik e come gesto di captatio benevolentiae verso il nuovo Congresso; la prospettiva geo-economica (aprire i mercati emergenti all’export americano); il “contenimento” di una Cina percepita come sempre più assertiva sia nella regione, sia sul piano bilaterale, dopo le malriuscite prove iniziali di G2. Difficile dire quale, tra queste, sia stata la dimensione dominante. Il dato centrale è che l’amministrazione americana è consapevole che i principali interessi economici e di sicurezza degli Stati Uniti sono oggi più che mai legati a quanto avviene in Asia; dal modo in cui gli Stati Uniti riusciranno ad indirizzare le dinamiche nel continente dipenderà la definizione di un ordine globale compatibile con i propri interessi. Non potrebbe del resto essere altrimenti. Già oggi il 60% dell’export americano è diretto verso il mercato asiatico e nei prossimi cinque anni l’economia della regione dovrebbe crescere del 50%. I quattro paesi toccati da Obama figureranno nel 2050 nella classifica delle prime dieci economie mondiali (la Cina e India rispettivamente al primo e terzo posto, l’Indonesia settima, il Giappone ottavo). Il viaggio del Presidente ha però confermato anche quanto in salita sia la strada per definire una “Pax asiatica” che aiuti a definire un ordine globale compatibile con gli interessi americani: e ciò vuoi per la complessità in sé del “sistema Asia” nel quale va contestualizzata l’ascesa della Cina, vuoi perché la crisi economica negli USA spunta le armi americane – nei confronti della Cina ma non solo – sul fronte, per Washington prioritario, della governance economica.

Il “sistema Asia”, caratterizzato da un mix di multipolarismo competitivo (tre grandi potenze – Cina, India, Giappone; tre potenze nucleari – Cina, India, Pakistan) e interdipendenza economica, pone gli USA di fronte a scelte complesse. Non è facile conciliare l’abbraccio all’India (un rapporto che Obama stesso ha definito the defining partnership of the XXI century) con il sostegno al Pakistan che è una pre-condizione per l’exit strategy dall’Afghanistan (basta vedere la reazione di Islamabad all’offerta americana di un seggio permanente all’ONU); l’alleanza con il Giappone e l’offerta a quest’ultimo del seggio permanente in Consiglio di Sicurezza in una fase di forti tensioni (legate in particolare alle dispute territoriali) tra Pechino e Tokyo serve da warning alla Cina, ma può complicare l’obiettivo di rendere quest’ultima più acquiescente sul fronte valutario e collaborativa sul fronte della proliferazione nucleare, dalla Corea del Nord all’Iran. Per l’India “sovrana” la Cina è il primo partner commerciale; vi è tra i due colossi, malgrado le rivalità e le vecchie tensioni di confine, una relazione complessa che rende poco realistico pensare che Delhi possa prestarsi a strategie di “contenimento” anti cinese di tipo nixoniano. “India will take care of India, it will not take care of China for the US,” ha commentato un autorevole opinionista americano. È difficile per gli Stati Uniti, di fronte a questa complessità e pluralità di interessi, rispondere con una strategia ben definita alla pur alta domanda di presenza americana da parte di quei paesi asiatici preoccupati dall’ascesa e dall’assertività soprattutto politico-militare della Cina. Concetti e strumenti che si sono rivelati vincenti in Europa – il contenimento anti sovietico, la difesa collettiva attraverso la NATO, l’integrazione europea – sono di poco aiuto nel puzzle asiatico, basato sulla balance of power. La crisi interna negli Stati Uniti rende per Washington il compito ancor più difficile. Lo si è visto al G20 di Seoul, con la mancata (“rinviata”) firma dell’accordo di libero scambio Stati Uniti-Corea e la difficoltà per Washington di creare un consenso anti cinese all’interno del G20 sui temi del tasso di cambio e degli squilibri commerciali: è stata al contrario l’America a trovarsi sotto pressione a Seoul, a causa delle misure espansive della Fed alla vigilia del viaggio del presidente. Nella battaglia sulla governance economica il rapporto con Pechino resta la chiave di tutto. Nel 1995 Bill Clinton disse al leader cinese Jiang Zemin che gli USA avevano più da temere da una Cina debole che da una Cina forte. Oggi, Obama deve ammettere la difficoltà di negoziare con Hu Jintao sulla rivalutazione del renmimbi. Né gli USA, nella loro battaglia possono contare sulla solidarietà europea, come dimostra l’asse Germania-Cina emerso a Seoul sui surplus di bilancio. Insomma, quella asiatica è una partita ancora tutta da giocare per Washington e, causa la latitanza dell’Europa, da giocare in solitaria.