international analysis and commentary

Quando una sconfitta è una sconfitta

339

Nella prima intervista dopo la debacle elettorale dei democratici al Congresso, Barack Obama si assume la responsabilità di una “frattura nella leadership”, un’incapacità di spiegare al paese le proposte politiche e convincere gli americani – assediati da una ripresa economica straordinariamente lenta – ad avere fiducia nelle ricette presidenziali. La conversazione con Steve Kroft – che andrà in onda domenica nel programma 60 Minutes del network CBS – è la seconda ammissione di colpa del presidente, dopo la conferenza stampa di mercoledì, in cui Obama per sei volte ha usato l’espressione “take responsibility” per qualcosa che è andato storto. E i risultati del midterm, impietosi per i democratici, sono la testimonianza più eloquente dei guai in cui si trova Obama. Il presidente ha scelto una linea difensiva giocata sul crinale friabile delle distinzioni: non sono le idee a essere sbagliate, dice il presidente, ma semmai il modo troppo pigro in cui sono state portate avanti; insomma, una certa mancanza di coraggio e decisione che ha trasformato i progetti illuminati di cambiamento in striminzite soluzioni di cabotaggio una volta passati alla centrifuga della realtà. In un momento in cui la middle class americana chiede efficacia e non soltanto potere evocativo e simbolico, il referendum presidenziale del midterm ha bocciato le politiche di Obama in modo inequivocabile.

Quella dei repubblicani non è affatto una “mezza vittoria”. I 60 deputati conquistati alla Camera segnano il più importante ribaltamento del Congresso dal dopoguerra. Quanto al Senato, non c’è grande delusione visto che ben prima delle elezioni gli uomini del GOP erano coscienti che andare all’arrembaggio dell’altro ramo del Congresso sarebbe stato estremamente difficile. Anzi, nei meandri procedurali del sistema americano si annida un paradosso: a Obama avrebbe fatto “comodo” perdere anche il Senato, e non soltanto per la spinta alla rielezione nel 2012, secondo gli esempi di Reagan e Clinton, ma anche perché avrebbe dato alla Casa Bianca la possibilità di difendersi più agevolmente dagli attacchi politici. Con un solo ramo del Congresso dalla sua parte, il presidente rischia di rimanere ostaggio di una maggioranza alla Camera che lo costringerà a giocare sulla difensiva. “Ora il presidente sarà costretto a usare quello che noi chiamiamo bully pulpit,” ha detto il cronista del quotidiano Politico, Mike Allen, in un briefing con la stampa straniera, “cioè la forza del potere esecutivo, una cosa che non farà bene all’immagine di Obama.” Se i repubblicani avessero conquistato anche la maggioranza al Senato sarebbero chiamati ad un ruolo più responsabile nel processo di law making: la sola Camera consente loro di macinare proposte in contrasto con la politica democratica, costringendo il Senato in una posizione di trincea e – molto probabilmente – il presidente a usare appunto il suo potere di veto. Una situazione che mette in pericolo le massime “post-partisan” di Obama, che ha detto di essere “ansioso” di sedersi al tavolo con i repubblicani per discutere del destino dei tagli fiscali dell’era Bush, cioè la prima “issue” sul tavolo del nuovo Congresso. Il leader del GOP al Senato, Mitch McConnell – il meno malleabile dei pezzi grossi della destra – si è detto disponibile a un dialogo costruttivo con la controparte democratica; ma l’analisi delle singole voci della discussione suggerisce che lo spazio di manovra per un’intesa è ridotto: “Vedo una possibilità soltanto sulla politica energetica,” ha detto l’editorialista liberal del Washington Post, E.J. Dionne, in una discussione radiofonica con il conservatore David Brooks. Sul fatto che le possibilità di un dialogo siano ridotte e che Obama sia davvero nei guai i due si sono trovati stranamente d’accordo. Se dunque le possibilità di rielezione per Obama nel 2012 non sono comunque da sottovalutare, il problema per il presidente sarà attraversare i prossimi due anni con il nuovo Congresso senza mostrare troppo i muscoli del potere esecutivo. Impresa non facile anche per il più osannato dei presidenti.