Con la tappa elettorale del midterm, cominciamo a poter valutare quale segno lascerà Barack Obama nel sistema politico e nella storia degli Stati Uniti. Potremo valutare la tesi di fondo che intellettualmente affascina gli osservatori di cose americane: quella per cui la vittoria di Obama nel 2008 avrebbe segnato l’inizio di un vero ciclo politico. Un ciclo certamente dominato dal partito democratico, probabilmente “liberal” seppure in senso non del tutto tradizionale, e senza dubbio antitetico al conservatorismo. Insomma, in questa visione l’ascesa di Obama sarebbe stata la vera risposta alla rivoluzione reaganiana, dopo la parentesi dei due mandati di Bill Clinton (e i suoi “New Democrats” centristi) che di fatto non sono riusciti a sradicare la “Right Nation” – il paese strutturalmente a destra.
Giunti alla metà del mandato di Obama, il quadro appare diverso: la reazione conservatrice alle scelte del presidente è stata rapida e impetuosa, contribuendo a frantumare la sua iniziale popolarità – certo, anche complice il durissimo colpo inferto dalla crisi economica. In apparenza, il baricentro ideologico è ancora decisamente a destra (basti pensare ai Tea Party), e molti analisti sottolineano la natura polarizzata della politica interna americana degli ultimi anni: un paese praticamente spaccato in due, con un centro indebolito e il grave rischio della paralisi.
Analisi convincente, ma con un caveat: non dobbiamo dimenticare che proprio quell’America “di destra” ha di fatto abbandonato G.W. Bush nell’ultima parte della sua presidenza, facendone uno dei presidenti meno stimati della storia americana. E ciò è accaduto in base a una precisa valutazione pratica: che la sua amministrazione fosse soprattutto incompetente, alla luce dell’invasione irachena e della gestione dell’emergenza Katrina. E, ovviamente, è quel clima politico ad aver poi spianato la strada al ritorno dei democratici alla Casa Bianca.
La netta impressione è allora che, oltre ai checks and balances istituzionali, siamo oggi di fronte a una spinta, non soltanto ideologica ma pragmatica, verso un graduale riequilibrio dell’asse politico. In sostanza, se anche il dibattito elettorale – ora per il midterm e poi soprattutto per la lunga campagna presidenziale verso il 2012 – dovesse gravitare verso le ali estreme, è probabile che una grossa fetta di elettorato americano andrà comunque alla ricerca di chi possa governare da una posizione più centrista. Al momento della verità, il fascino personale dei candidati e la fiducia che questi ispirano nei cittadini tendono comunque a risultare più decisivi rispetto al voto di protesta. Non è detto che ciò si traduca in posizioni pragmatiche, ma forse influenzerà in qualche misura l’offerta politica, ricordando a tutti che né i liberal alla Nancy Pelosi né gli ultra-conservatori alla Tea Party garantiscono uno stabile bacino di popolarità né un sostegno politico che consenta di governare.