international analysis and commentary

America first: Obama e l’Iraq

253

“Ci sono patrioti che hanno sostenuto questa guerra e patrioti che l’hanno osteggiata”. L’Obama pedagogico ed ecumenico – quello che siamo abituati ad ascoltare da due anni a questa parte, da quando cioè spiegò ai bianchi la rabbia dei neri e ai neri le paure dei bianchi nel famoso discorso di Filadelfia del 18 marzo 2008 – non ha cambiato stile e profilo nemmeno per questa occasione: il discorso del 31 agosto sulla fine della missione militare in Iraq.

Al contrario di quello che pensano i liberal delusi che ne criticano scelte politiche ed economiche, il Presidente in carica non si sposta di una virgola dal suo messaggio iniziale. Dallo speech di Washington del 20 gennaio 2009 – il giorno del giuramento – a quello di fine agosto, Obama ha tenuto fede al percorso intrapreso fin dal principio: l’America tornerà a essere la “città sulla collina” solo se saprà superare la crisi che ha colpito il paese al suo interno. Un percorso “intimo” di redenzione e di ricostruzione della solidarietà che dovrebbe legare le diverse anime dell’America (“E Pluribus Unum”): non a caso, una delle cinque citazioni che appaiono nella corona esterna del nuovo tappeto color nocciola del Presidente è la celebre frase di Theodore Roosevelt “il benessere di ognuno di noi dipende dal benessere di tutti noi”. Il “perseguimento della felicità” di ogni individuo è impossibile a compiersi se non si è parte di un noi. Un messaggio ribadito anche nello “State of the Union” del gennaio scorso, con parole molto simili.

Gli Stati Uniti devono mostrare le proprie qualità risanando la propria economia, la propria società e le proprie istituzioni: è quanto ha detto Obama nella seconda parte del suo discorso.  Di nuovo, ancora una volta, “America First “e la denuncia di un peccato di hubris che avrebbe fatto superare i limiti del consentito: “migliaia di americani hanno perso la vita e in centinaia di migliaia sono rimasti feriti. I nostri rapporti con l’estero sono diventati tesi e la nostra unione interna è stata messa alla prova”. Obama è il presidente del “downsizing” (a esclusione del deficit), che si tratti dei consumi energetici o delle pretese imperiali: è la cosa che lo fa apparire meno americano di tutte, più del cognome che porta. Nel discorso del 31 agosto è come se questo limite fosse stato quantificato: i 1000 miliardi di dollari spesi per la guerra in dieci anni. “Nell’ultimo decennio abbiamo speso oltre 1000 miliardi di dollari in guerra, spesso finanziati con prestiti esteri, e ora, con la fine della guerra in Iraq, è arrivato il momento di affrontare le sfide domestiche con la stessa energia (….) dimostrata dai nostri uomini e dalle nostre donne che hanno servito fuori dai nostri confini”. Un dato offerto a un’America in crisi economica, quasi a confrontare le difficoltà del proprio conto in banca con l’irragionevole dimensione di quella cifra.

Il discorso, infatti, apre anche la campagna elettorale per il mid term del 2010, che entrerà nel vivo tra un mese, anche se il fischio d’inizio ufficiale si ha per tradizione subito dopo la celebrazione del Labor Day (il primo lunedì di settembre). Come per ogni elezione di midterm il partito del Presidente è destinato a perdere seggi: la media nel dopoguerra è di 28 seggi consegnati al partito d’opposizione. A partire dalla guerra in Iraq e dallo stato dell’economia Obama ricorderà – nel discorso lo ha fatto indirettamente e in modo elegante, ma lo ha fatto – a chi si deve lo stato di crisi del paese: non si tratterà di una campagna elettorale all’insegna della “hope” ma del “fear”, la paura del ritorno dei repubblicani. Con questo discorso Obama sembra aver voluto ricordare che, per quanto la strada sia lunga, uno degli elementi che componeva il caos di questo decennio è stato rimesso al suo posto.

Nonostante questo il campo democratico sembra essere piuttosto spento, mentre l’entusiasmo dei repubblicani e del Tea Party è palpabile: le elezioni di midterm si basano sulla galvanizzazione dei propri militanti, essenziale in una competizione dove raramente si reca al voto più del 40% della popolazione. Al Presidente si chiede di essere uomo di parte, in campo per la propria squadra: non servirà mostrarsi statista, come egli si è voluto mostrare in questo bel discorso di fine estate.