I proximity talks fra Israele e Autorità palestinese sono ufficialmente ripresi, grazie all’insistenza del Presidente Obama, a cui interessava lanciare un segnale di impegno in Medio Oriente in coincidenza con il ritiro totale delle unità di combattimento in Iraq.
A guidare il team dei negoziatori israeliani sarà l’avvocato Yitzhak Molcho, che accompagna il premier Netanyahu a Washington; lo staff sarà composto da personale del Ministero della Difesa, avendo il Ministro degli Esteri israeliano Lieberman declinato ogni responsabilità, dichiarando – con il suo Ministero – una sorta di “sciopero” a riguardo.
Egitto e Giordania sono stati invitati a partecipare agli incontri di Washington come rappresentanti dell’iniziativa di pace araba. Ma gli attori regionali appaiono scettici. A cominciare da Amre Moussa, che a nome della Lega Araba ha sostenuto che anche questo tentativo – seppur nobile – è destinato ad arenarsi nella “sabbia” degli insediamenti.
Gli Stati dell’area non sembrano credere che sia alle porte un cambiamento. L’ultimo episodio di frizione bellica sul confine israelo-libanese sembra confermare che sia la Siria che il Libano si muovono sullo scacchiere regionale indipendentemente dal conflitto israelo-palestinese; o forse dandone per scontato il fallimento. Mentre l’attenzione è rivolta alla crisi maggiore latente, con l’Iran.
Se il quadro regionale non appare rassicurante, le relazioni bilaterali israelo-palestinesi non hanno mai toccato, in tempi di pace, un punto tanto basso. Il tasso di sfiducia fra le parti è altissimo, così come le spaccature interne a ciascuno dei due fronti, che fanno di Netanyahu e Abu Mazen negoziatori quanto mai deboli e vulnerabili. O, meglio, ricattabili: Netanyahu dalla propria coalizione, Abu Mazen dai gruppi di opposizione e da nuovi attentati.
In Israele la “destra dei coloni” è anche una destra messianica e religiosa che si rifà agli eterni miti pionieristici del sionismo; mentre la “sinistra” laica si identifica politicamente con Yitzhak Rabin e con gli accordi di Olso, accordi che, per i coloni, hanno in realtà svenduto il paese. La ripresa dei negoziati non può quindi fondarsi, per la destra israeliana, su quegli stessi termini. D’altra parte, per Netanyahu sconfessare la logica degli insediamenti significherebbe perdere non solo la maggioranza governativa ma anche la fiducia del proprio elettorato. Netanyahu si è infatti battuto per anni a favore dell’equiparazione fra le città oltre la Linea Verde – Ariel, ad esempio – e quelle costruite entro i confini del ’67.
Sul versante palestinese la situazione non si presenta più semplice. Abu Mazen ha pubblicamente dichiarato che spetta a Israele di non boicottare le trattative con l’annuncio della ripresa degli insediamenti; ma è a sua volta molto indebolito all’interno. Al di là del dato essenziale (la perdita di Gaza a favore di Hamas), il presidente palestinese non gode infatti di grande popolarità neanche in Cisgiordania, soprattutto da quando ha posticipato a data da definirsi nuove elezioni. Il suo governo, per quanto tecnicamente efficace e capace di generare (con il premier “tecnocratico” Salam Fayyad) buoni tassi di crescita economica (attorno al 7%), non è apprezzato. I metodi di Abu Mazen sono considerati “dittatoriali” da un insieme composito di partiti antagonisti, che vanno dal Fronte Popolare e quello Democratico, ai comunisti, al gruppo costituitosi intorno al magnate Munib al-Masri che punta alla riconciliazione Fatah-Hamas. Appena pochi giorni fa, a Ramallah, un congresso animato da gruppi di opposizione, e che si era dichiarato nettamente contrario alla ripresa dei negoziati con Israele, è stato messo a tacere con la forza grazie all’impiego dei servizi segreti palestinesi.
Hamas – tramite Khaled Mashaal, in esilio a Damasco – ha dichiarato che i proximity talks sono solo un mezzo subdolo per far rinunciare i Palestinesi a tutte le loro rivendicazioni storiche. È un messaggio cui ha fatto seguito l’uccisione di quattro coloni israeliani a Hebron: l’attentato, elogiato da Hamas, è un modo tipico per boicottare in anticipo i negoziati.
Anche la mediazione americana sembra fragile. Le relazioni fra l’amministrazione Obama e il governo israeliano sono difficili e sempre esposte a incidenti. Il dubbio, sul lato americano, è se il rapporto strategico con Israele non cominci a costare troppo agli Stati Uniti; sul lato israeliano, è se l’amministrazione Obama dia garanzie sufficienti. La questione iraniana, prima di quella palestinese, potrà dividere i due paesi.
In queste condizioni, le possibilità di conciliare gli obiettivi delle parti sembrano ridotte. Mentre tenderanno ad emergere, nel tempo, le vere agende rispettive. Per la parte palestinese, il piano B: ossia – una volta esauriti i nuovi negoziati – la dichiarazione unilaterale di uno stato Palestinese sostenuto e riconosciuto dalla comunità internazionale entro la fine del 2011.
Sul lato di Israele, il tentativo sarà invece quello di arrivare a un accordo sull’ “espansione differenziata” degli insediamenti, a beneficio di quelli più grandi – come Ariel, appunto- e in cambio del sostegno israeliano alle infrastrutture e al commercio palestinese. Netanyahu potrebbe anche mettere sul tavolo la carta della riapertura regolare dei valichi di Gaza. Per Gerusalemme, in ogni caso, la ripresa dei proximity talks sembra più che altro una mossa volta ad accontentare gli Stati Uniti e a guadagnare qualche credito sulla questione vera che interessa a Israele, lo sviluppo del nucleare iraniano.
Gli Israeliani dicono che solo la “destra può fare la pace” e trascinare il Paese con sé. Ma la ripresa dei proximity talks non sembra galvanizzare nessuno, a Gerusalemme. E Netanyahu sta già stentando a “trascinare” la propria coalizione fino a Washington.