E’ difficile stabilire quando si sia irrimediabilmente guastato il rapporto tra Washington e il presidente afgano. Hamid Karzai, tutto sommato un afgano della diaspora, era sembrato, non solo agli americani, l’unico cavallo di razza su cui puntare nel 2001-2002. Adesso la relazione è molto sfilacciata. Gli Stati Uniti si lamentano, e il presidente Obama avanza pressanti richieste ufficiali. Il suo vice, Joe Biden, ha persino oltrepassato il fragile confine della cortesia diplomatica già nel febbraio del 2008, quando durante un pranzo gettò sul tavolo il tovagliolo in un gesto di frustrazione verso Karzai.
Il fatto però è che una “working relationship” resta per ora obbligata e senza alternative, a dispetto di incidenti e oscillazioni.
La rottura definitiva sembrava essersi consumata, ma poi subito ricomposta, alla fine del contorto e controverso processo elettorale nel novembre scorso che, alla fine, ha premiato Karzai con un secondo mandato (il terzo considerando l’interim) alla più alta carica dello Stato. Ciò in un paese dove un presidenzialismo molto accentratore è una necessità contingente, che si cerca faticosamente di legare alla tradizione di quasi tre secoli di monarchia.
Ma le cose già andavano male ben prima del 20 agosto 2009, data fissata, dopo un lungo tira e molla, per le elezioni presidenziali. Proprio mentre cominciavano le schermaglie per le candidature, Washington aveva già fatto capire a Karzai di non considerarlo più l’unico cavallo su cui puntare. Mai troppo apertamente, ma con uno stillicidio di mezze dichiarazioni, di voci di “anonimi funzionari” che lamentavano col Times o col Post che ci voleva ben altro. Fino al grande scontro con Peter Galbraith, numero due della missione Onu a Kabul (Unama): a elezioni consumate, il rappresentante americano dichiarò che Karzai aveva fatto brogli di ogni genere, era corrotto e inaffidabile. Per Washington, il re era nudo.
Seguirono telefonate riparatrici con la Casa Bianca e incontri con i vari inviati, ma la sensazione è rimasta che l’America considerasse ormai il presidente afgano come un piccolo ras che andava (ancor più) ridimensionato, o perfino un cameriere ormai non più in grado di servire bene a tavola. Quasi fosse sua la colpa di una guerra che, se nessuno perde, la Nato non riesce a vincere.
Le acque si chetano con l’insediamento del 19 novembre, ma le rimostranze ufficiali continuano, condensate in due slogan: buongoverno e lotta alla corruzione. A questo punto, convinto che si trami continuamente alle sue spalle, Karzai comincia a giocare in proprio su due fronti lasciati finora relativamente sguarniti. Lancia così un’iniziativa forte sul piano interno (la trattativa coi talebani), e una nuova dimensione internazionale della politica afgana su più tavoli – rafforzando i contatti con Mosca, Pechino, Nuova Delhi e Teheran. Un gioco in solitario che non piace ovviamente agli alleati occidentali, i quali vorrebbero invece vederlo lavorare soltanto alla ricomposizione – difficilissima – col Pakistan. Oltre ai soliti moniti ufficiali, riprendono anche le indiscrezioni sul chiacchieratissimo fratello del presidente e delle sue presunte attività nel settore della droga.
Un altro duro colpo arriva però dall’interno, il 31 marzo, quando la Camera bassa del parlamento – che Karzai teme ispirata dalle ambasciate straniere – boccia a larghissima maggioranza l’emendamento col quale si sarebbe assegnato al presidente il completo controllo sulla Commissione elettorale di monitoraggio. Karzai accusa allora l’Occidente di ingerenza, e di manovrare contro gli interessi del paese: insomma, accusa i vecchi amici di essere in realtà avidi traditori. In una riunione a porta chiuse con alcuni parlamentari si sfoga e, a quanto risulta, gli sfugge una frase a mezza bocca: “…queste pressioni mi spingono nelle braccia dei talebani”.
Eppure, in pochi giorni si innesta nuovamente la marcia indietro, a dimostrazione che fare la voce grossa può pagare. Il prossimo viaggio a Washington di Karzai, in forse nelle ultime settimane, viene confermato. Sulla stampa americana ricompaiono “anonimi funzionari” dell’Amministrazione che sostengono come in fondo Karzai resti l’unica carta affidabile, mentre autorevoli commentatori mettono in guardia su un atteggiamento troppo ondivago verso il presidente che rischia di compromettere le sorti della guerra. Del resto, il personaggio che è probabilmente il maggiore artefice della politica occidentale in Afghanistan, il generale americano Stanley McChrystal, non fa mistero del suo appoggio al presidente.
Come già in passato, Hamid Karzai e la sua potente famiglia restano l’unica pietanza in grado di soddisfare diversi palati a Kabul: senza un eccesso di spezie che indispettisca i suoi ospiti occidentali o troppo insipida perché possa alienargli il composito esercito di alleati interni che spesso sbattono posate e bicchieri ma che, alla fine, siedono volentieri al banchetto organizzato dal presidente. Tutti si rendono conto che, se troppo indebolito, Karzai potrebbe aprire una crisi al buio che nessun altro leader nazionale avrebbe le relazioni per ricomporre. I commensali afgani sanno che, alla fine, il “sindaco di Kabul” è ancora l’unico fra loro in grado di garantire una seppur fittizia unità della porzione di Afghanistan che è libera dai talebani (una porzione difficile da definire). Ed è l’unico ad aver intessuto rapporti internazionali che vanno ben oltre i paesi della NATO.
Pechino – che continua ad investire – ha mano libera nello sfruttamento dei tesori minerari; Nuova Delhi – che ha coperto Karzai di regali – gode di una presenza prima impensabile; Mosca tenta un rientro a pieno titolo nel “Grande gioco”; Teheran spera di vedersi riconosciuto lo status regionale a cui aspira. Infine, rispetto a Islamabad, Karzai ha dimostrato di essere un interlocutore ineludibile, capace di alzare la voce ma anche di negoziare – come sta facendo sul caso Baradar, il numero due della cupola talebana arrestato dai pachistani.
Tutto ciò ha rafforzato il presidente in modo inaspettato. Ma i rischi ci sono, e sono molti. Karzai sa che la sua poltrona è e resterà instabile e minacciata: dagli appetiti interni e dalle bizze della comunità internazionale, che un giorno lo ama e l’altro lo accusa. Infine sta giocando una carta, quella della riconciliazione nazionale e di un vero consenso popolare, che resta la sua partita più difficile.
In fondo, nessuno vuole rischiare che Karzai si trasformi in una variabile impazzita e esclami una sorta di “Après moi, le déluge!”. Quella frase è attribuita a Luigi XV, il monarca francese che regnava proprio quando Ahmed Shah Durrani, nel 1747, creò il primo regno veramente afgano capeggiando una confederazione tribale che si estendeva dal Khorasan persiano all’India e dall’Amu Darya all’Oceano indiano. Forse è quello il precedente storico a cui Karzai si ispira davvero.