Sono trascorsi trent’anni da quando, grazie a Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, l’espressione “arco della crisi” è entrata nel lessico politico. E molte cose sono mutate da allora. Il principale di questi cambiamenti è il ruolo assunto dalla Cina, cruciale in quanto il concetto di arco della crisi ha un senso non in relazione alle caratteristiche dei Paesi che – dal Corno d’Africa al Pakistan – ne costituiscono l’ intelaiatura, bensì per i rapporti tra le grandi potenze.
Ai tempi di Brzezinski la “crisi” che specificava la natura dell’arco era quella della distensione Est-Ovest che aveva illuminato gli anni ’70 e che lasciava il posto a una nuova guerra fredda. Dopo il crollo dell’URSS, il termine ha galleggiato nelle nebbie della geopolitica del terrorismo. Ora l’arco della crisi è tornato a contrassegnare i rapporti di forza tra le due maggiori potenze – ruolo sempre più spesso assegnato a USA e Cina insieme – che si contendono non un territorio piuttosto che un altro, ma un determinato ruolo nel mondo globalizzato. Sta diventando insomma un utile punto di riferimento per valutare quanto meno gli spazi di collaborazione e di conflittualità nelle rispettive strategie.
Tra le caratteristiche del primo “arco” – quello determinato dallo scontro USA-URSS – c’era una sostanziale analogia di comportamento delle due superpotenze, che identificavano la loro sicurezza con l’acquisizione di territori e la creazione di regimi fidati. In pratica il calcolo di come stava andando la competizione poteva essere fatto mettendo bandierine rosse o a stelle e strisce su ciascuna delle capitali dell’area presa in esame. Inoltre Washington e Mosca ritenevano (o fingevano di ritenere) di lottare sostanzialmente ad armi pari. Il nuovo arco è caratterizzato invece proprio dalla difformità dei metodi di Washington e Pechino. C’è anche un riconosciuto squilibrio di forze dal punto di vista militare (e non solo) a vantaggio americano. Soprattutto, si è per ora lontani da un’atmosfera di guerra fredda ed anzi, in particolare da quando si e’ insediato Obama, è venuta da parte americana una esplicita richiesta di collaborazione.
Le bandierine non sono più utilizzabili per stabilire chi avanza e chi arretra. La gestione di problemi globali (dal clima al terrorismo internazionale) e i rapporti bilaterali, centrati oggi più che mai sul tasso di cambio tra dollaro e renminbi, sembrano spesso oscurare le questioni regionali. Tuttavia Pechino sembra muoversi con sempre maggiore sicurezza e guadagnare più spazio e potere contrattuale.
Il caso più emblematico è quello dell’Afghanistan, oggi la vera chiave di volta dell’arco della crisi (assieme all’Iran, come vedremo). Non solo gli Stati Uniti non riescono a sbloccare la situazione sotto l’aspetto militare, ma si incrinano anche i rapporti con il governo in carica. Il presidente Hamid Karzai litiga ormai apertamente con Washington, accusando il grande alleato di avere fatto brogli alle elezioni dell’agosto scorso per danneggiarlo, e varando un decreto per eliminare dalla Electoral Complaints Commission i commissari che non siano a lui legati. Sa di non poter fare a meno dell’ombrello americano e quindi ha in effetti compiuto alcuni passi nella direzione auspicata da Obama; ma sa anche di non essere più gradito agli americani e di avere i giorni contati (per l’esattezza fino alle elezioni parlamentari di settembre) se non trova altri puntelli.
Guardando al ruolo della Cina, non può essere un caso che il momento più crudo della polemica tra Karzai e Washington abbia coinciso proprio con la visita del presidente afgano a Pechino. “La Cina svolge un ruolo importante per la stabilità dell’Afghanistan e della regione”, ha detto Karzai rispondendo a Hu Jintao, il quale prometteva “aiuti nel quadro della ricostruzione pacifica” e “sostegno negli sforzi per salvaguardare sovranità, indipendenza e integrità territoriale dell’Afghanistan”. Ciò significa denaro e anche assistenza militare: “I soldati cinesi continueranno ad aiutare le forze armate afgane a migliorare la loro efficienza”, ha detto il ministro della difesa Liang Guangli. A ciò va unita la vera arma vincente di Pechino, cioè la presenza sul campo di imprese cinesi senza che venga posta alcuna “condizionalità” di ordine politico: due società cinesi stanno lavorando allo sfruttamento della miniera di rame di Aynak, a sud di Kabul, con un investimento di 4 miliardi di dollari.
Con questa presenza silenziosa, come notava recentemente il New York Times, la Cina si pone come una fonte alternativa di fondi rispetto alle istituzioni internazionali e alle organizzazioni donatrici che richiedono norme di buona governance. Un simile tipo di presenza è già particolarmente consolidato in Pakistan: qui, gli americani (malgrado il dialogo strategico rinnovato a fine marzo, nonché l’appoggio finanziario e militare che forniscono da sempre) faticano a creare un’alleanza basata sulla fiducia. Con Pechino invece i governi pachistani si intendono a meraviglia. E più ancora si intendono i militari, che dei cinesi apprezzano soprattutto due aspetti: la loro comprensione verso le deroghe alla democrazia e l’ostilità profonda verso l’India (seppure talvolta mascherata, come nel caso della recente visita a Pechino del ministro degli esteri indiano S.M. Krishna).
Il Pakistan sta attraversando una fase di destabilizzanti cambiamenti, ma il classico triangolo con USA e Cina, che se ne contendono i favori, appare una costante. La variabile sta invece in un’area strategica che deve ormai essere inserita a buon diritto nell’arco della crisi, quella occupata dalle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Qui la competizione USA-Cina costituisce una (relativa) novità e a guadagnare punti sembrano i cinesi, malgrado con alcuni di quei Paesi, soprattutto il Kazakistan, sussistano storici antagonismi (dal tracciato dei confini alla questione degli Uiguri). In primo luogo la Cina ha creato un importante strumento di collaborazione regionale come il Gruppo di Shanghai. Inoltre, visto che non ha mai gradito la presenza di basi americane nell’area, parlano a suo favore la chiusura di quella in Uzbekistan, l’ondivago atteggiamento del Kirghizistan (a maggior ragione dopo il colpo di stato) e il “no” reiterato del Kazakistan. Restano le “linee di transito” per rifornire le truppe americane in Afghanistan, alle quali Pechino per ora non si è opposta.
Un’altra novità degna di rilievo è l’ingresso della Cina in Iraq attraverso una joint venture della compagnia di Stato Cnpc con la British Petroleum per lo sfruttamento dei ricchi giacimenti di Rumaila: un ingresso a sorpresa con l’obiettivo di procurarsi sicure riserve di petrolio e non di strappare posizioni agli Stati Uniti. Quindi, nulla che non rientri in quella “armonia “ confuciana delle relazioni internazionali che Hu pone come cornice della sua politica estera.
Anche l’approccio cinese alla questione nucleare iraniana non è fatto per colpire gli Usa, ma oggettivamente finisce col nuocere a Obama che chiede sanzioni e riceve solo disponibilità a discuterne. La Cina ha una sua linea strategica che prevede la gestione della globalizzazione in nome della “condivisione delle responsabilità” e del principio che “ogni Paese deve rispettare gli altri in modo da garantire il pluralismo mondiale e la molteplicità dei modelli di sviluppo”. Applicato al fronte iraniano, ciò significa difesa dei propri interessi petroliferi, economici e commerciali in Iran insieme al dogma della non ingerenza. E proprio l’Iran, la cui rivoluzione nel 1979 scompaginò tutte le certezze americane in Medio Oriente diventando il fulcro dell’arco della crisi, rischia di essere il principale punto di contrasto tra le superpotenze di oggi.