international analysis and commentary

La guerra delle cicale e delle formiche

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Un anno fa eurolandia era considerata un’isola di stabilità e l’euro una efficace protezione, se non contro la crisi almeno da alcuni aspetti di essa. Il problema greco ha cambiato questa percezione. Secondo alcuni analisti l’unione monetaria è destinata a esplodere, o perché la Germania deciderà di andarsene o perché le formiche (Germania compresa) decideranno di espellere le cicale (come la Grecia). Secondo altri, il prezzo da pagare per salvare l’euro sarà una prolungata stagnazione dell’economia europea, che in alcuni paesi si tradurrà in una severa recessione. Tradotta dal linguaggio degli economisti in parole comprensibili per un pubblico più vasto, quest’ultima affermazione vuol dire che è colpa della Germania: della sua mania di esportare e risparmiare troppo e di consumare troppo poco.

Le critiche verso il sistema di regole che ha accompagnato la creazione dell’euro datano dal momento della firma del trattato di Maastricht. Per alcuni la mancanza di un governo economico di tipo federale dotato di poteri e di mezzi sufficienti era una ragione per opporsi al progetto e ritenere che l’euro fosse una scommessa troppo azzardata. Queste posizioni radicali non sono del resto nuove: già negli anni ’50 i federalisti prevedevano che il trattato di Roma non avrebbe funzionato perché non prevedeva l’unione politica. Su questa base non si sarebbe fatto mai nulla. Tuttavia esistono nel sistema falle che richiedono modifiche di ampio respiro. L’architettura di Maastricht poggia su due pilastri: l’indipendenza della BCE e la convergenza delle politiche economiche dei paesi membri. Il primo pilastro era definito con precisione ed è opinione diffusa che la BCE abbia superato brillantemente la prova del suo primo decennio di vita. La “convergenza” era invece affidata alla speranza che i paesi membri seguissero volontariamente politiche economiche compatibili con l’appartenenza all’unione monetaria. Insomma, le cicale avrebbero capito da sole quale era il loro interesse. La “compatibilità” doveva essere verificata in base ai famosi parametri di Maastricht; essi non sono privi di razionalità, ma furono fin dall’inizio criticati perché arbitrari o troppo rigidi (stupidi, per riprendere l’infelice espressione di Romano Prodi). Fu rifiutata la proposta di Delors di tener conto anche di parametri relativi alle politiche strutturali, cioè agli elementi che determinano la competitività dell’economia reale. Il controllo era affidato a periodiche verifiche da parte della Commissione e al giudizio collettivo degli altri governi. Erano previste sanzioni, ma modeste e non molto credibili. In sostanza i paesi membri hanno rinunciato alla propria sovranità monetaria, ma non a quella in materia di politica economica. Come in tutti i sistemi basati sulla “peer review”, si è visto che essa conduce all’omertà e alla compiacenza. Casi di “divergenza” si sono manifestati fin dall’inizio. Per citare solo i maggiori, il debito italiano non è sostanzialmente sceso, mentre persino la Francia e la Germania hanno disatteso il vincolo del deficit. Tuttavia il sistema è stato gestito. Il patto di stabilità è stato reso più flessibile e si è preso atto che la crisi attuale imponeva ancora più flessibilità. Poca attenzione è stata però prestata al crescente divario di competitività fra le varie economie; come se ciò non avesse un effetto determinante sulla capacità di rispettare le regole. Si è cercato di ovviare con la cosiddetta “strategia di Lisbona”, affidata però anch’essa al buon volere dei singoli governi. Il caso greco è invece stato il detonatore di una nuova crisi di credibilità del sistema. Ciò è in parte ingiustificato. Il comportamento della Grecia è stato fin dall’inizio del tutto aberrante, basato su sistematiche e coscienti manipolazioni contabili, peraltro colpevolmente tollerate dagli altri governi e dalla Commissione. Da questo punto di vista il problema del “contagio” di altri paesi a rischio (Spagna, Portogallo, Irlanda, Italia) non è ben posto, poiché quei paesi hanno problemi strutturali, forse anche più gravi ma diversi. Riemerge però la domanda che si è voluta eludere all’inizio: cosa succede se un paese diverge in modo strutturale e se i costi di adattamento sono manifestamente troppo elevati socialmente e politicamente? Fino a dove può spingersi il bastone?

Per capire il dilemma di fronte cui si trova l’Europa è bene fare un passo indietro. Quando iniziarono i terremoti monetari degli anni ’70, la Francia (e altri paesi) proposero vincoli monetari all’interno della Comunità accompagnati da forme di solidarietà reciproca. La Germania (e altri paesi) risposero che la stabilità monetaria dipendeva unicamente dalla convergenza delle politiche economiche. I paesi a rischio di svalutazione dovevano solo riprodurre le virtù economiche tedesche in materia d’inflazione, competitività e gestione della finanza pubblica; la stabilità monetaria non richiedeva altri interventi comuni. Data da allora il dibattito – peraltro mai risolto – sulla natura “asimmetrica” degli aggiustamenti necessari. Ci vollero dieci anni di turbolenze e una recessione per condurre al Sistema Monetario Europeo (SME). La Germania accettava vincoli monetari, ma “le cicale” adottavano alcuni dei principi tedeschi di gestione dell’economia. Ci vollero altri dieci anni di discussioni furibonde e gli effetti destabilizzanti di una crescente instabilità del dollaro per capire che lo SME era strutturalmente fragile e che era necessario passare all’unione monetaria completa. La Germania sacrificò il marco; gli altri paesi accettarono formalmente di seguire i dettami tedeschi in materia monetaria e fiscale. Come si è visto, si confidò nella virtù delle cicale, la cui pratica tra l’altro avrebbe reso non necessari e comunque meno dolorosi gli aggiustamenti “asimmetrici”. Non sono mai mancate voci che chiedevano di rafforzare la gamba economica dell’unione monetaria. La nozione di “governo economico” è però rimasta fino a oggi indefinita. Senza citare la tentazione aberrante di intenderlo come un tentativo di sottoporre la BCE a controllo politico – tema peraltro ben presente negli incubi tedeschi – si possono individuare quattro filoni di pensiero. Primo, un rafforzamento delle procedure, per renderle più vincolanti. Secondo, un rafforzamento delle sanzioni. Terzo filone, la creazione di strumenti comuni d’intervento o di solidarietà: eurobonds, un più robusto bilancio comune, fino all’ipotesi di un Fondo Monetario Europeo (FME). Infine, il rafforzamento delle politiche strutturali in materia di mercato interno e concorrenza, ma anche di politica industriale, sociale e di armonizzazione fiscale. Nessuna di queste idee è stata finora approfondita in modo molto serio. Se mai vi sarà una soluzione, è però probabile che contenga un mix di alcune di queste ipotesi.

Recentemente Wolfgang Schauble, ministro tedesco delle finanze, ha sparigliato le carte proponendo la creazione di uno strumento comune, un FME appunto, accompagnato da un durissimo inasprimento dei vincoli e delle sanzioni per i paesi “divergenti”. I partner della Germania, invece di cogliere l’apertura hanno scelto di sottolineare il ritorno in forza della teoria degli aggiustamenti asimmetrici. Il dibattito sembra ormai impostato su una contrapposizione ideologica apparentemente insanabile perché, come negli anni ’70 entrambi i campi possono invocare un forte sostegno domestico per la propria posizione. Da un lato, c’è chi dice che il surplus tedesco non è frutto di un disegno ma di un recupero di competitività faticosamente raggiunto; dall’altro, chi risponde che l’egoismo tedesco li condanna alla depressione e alla guerra sociale. Per prima ha messo i piedi nel piatto il ministro dell’economia francese Christine Lagarde, che ha puntato il dito sulle responsabilità della Germania per gli squilibri interni all’Europa. Puntualmente è arrivata la dura risposta della stessa Cancelliera che è arrivata fino a ipotizzare apertamente l’uscita dei “divergenti” dall’euro; ipotesi non prevista dal trattato e sorprendente in bocca a chi si fa scudo delle regole per negare la possibilità di un intervento comune a favore della Grecia. La saggezza politica avrebbe dovuto consigliare di cogliere gli aspetti positivi della proposta di Schauble e di non iniziare apertamente l’offensiva proprio sul tema più sensibile per la Germania; tra l’altro contribuire a indebolire pubblicamente uno degli esponenti più europeisti del governo non è il modo migliore per iniziare un dialogo.

Ho voluto ricordare i precedenti storici perché per certi versi stiamo assistendo al remake di un film già visto. La novità non sta tanto nel cambiamento intervenuto in Germania, innegabile e ampiamente analizzato. Sta piuttosto nel fatto che tutti i governi e non solo quello tedesco parlano rivolti alle correnti populiste della propria opinione pubblica e non agli altri partners. Mitterrand ebbe il coraggio di dire ai francesi che dovevano abbandonare la cultura dell’inflazione. Kohl ebbe il coraggio di dire ai tedeschi che una Germania più europea era il prezzo da pagare per un’Europa più tedesca. Oggi nessuno sembra avere il coraggio di dire, né a Berlino, né a Parigi, né altrove che il crollo dell’euro avrebbe conseguenza devastanti per l’Europa e per ogni singolo paese nessuno escluso. Quando ci occupavamo solo d’integrazione dei mercati, nulla era irreversibile; ci potevamo permettere rigurgiti di protezionismo che sarebbero stati dannosi ma transitori. L’euro è diverso: è irreversibile nel senso che non può essercene “un po’ meno”. Il suo fallimento avrebbe ripercussioni economiche e politiche incomparabilmente superiori al prezzo da pagare per il suo consolidamento. Anni fa Barbara Tuchman scrisse un celebre libro, (I cannoni di agosto) in cui spiegò che l’inizio della prima guerra mondiale non fu il risultato di un disegno cosciente, ma di una serie di errori di calcolo da parte di tutti i protagonisti; fu anche uno dei massimi teorici del peso delle decisioni irrazionali nelle vicende umane. Oggi non abbiamo a che fare con una minaccia di guerra; resta il fatto che i governi europei hanno adottato dall’inizio della crisi comportamenti perfettamente spiegabili in termini di politica interna, ma altrettanto irrazionali dal puto di vista del funzionamento del sistema europeo. I maggiori paesi europei accettano più o meno i vincoli di bilancio, ma non hanno mai voluto condurre all’interno una vera riflessione sulle implicazioni politiche ed economiche dell’appartenenza a un’unione monetaria.

Una considerazione finale. I tempi della soluzione dei problemi sistemici che affliggono l’euro non sono compatibili con l’urgenza della crisi greca. A essa dovrà essere data una risposta rapida e ad hoc. Se alla fine Atene fosse affidata alle amorevoli cure del Fondo Monetario Internazionale, sarebbe un insuccesso politico dell’Europa ma non necessariamente una catastrofe. A condizione però che, tirato un sospiro di sollievo, non ci dimentichiamo dei problemi strutturali che affliggono il sistema. Si potrebbe dire che fra Grecia e Spagna c’è la stessa differenza che passa fra Madoff e Lehman. Se mai esploderà un problema spagnolo, le tergiversazioni di queste settimane non saranno più possibili.