“I francesi furono uccisi a Surobi perché non pagarono come gli italiani”. Questo, in sostanza, ha raccontato The Times la settimana scorsa. Surobi, 40 km ad est di Kabul, è un’area dove nemmeno i sovietici riuscirono ad imporre l’ordine e dove il signore della guerra Hekmatyar continua a detenere un’influenza decisiva. Nel 2008, quando l’Italia ne assunse il comando, parallelamente al comando della Regione Ovest (caso unico nella missione NATO) i rischi erano ben noti.
Fu così che, come accade raramente in Italia, la sfida fu presa sul serio e il terreno fu preparato attentamente: prima dell’arrivo dei militari la Cooperazione italiana finanziò la distribuzione di viveri e beni (direttamente, senza il tramite di capi locali poco affidabili). I militari, a loro volta, mantennero aperti i canali con la popolazione, creando centri d’aggregazione, scavando pozzi, finanziando opere pubbliche e privilegiando il rapporto con le comunità locali. La creazione di fiducia fu tale che la popolazione portava panetti di oppio da distruggere e denunciava i depositi illegali di armi. Fu un successo dovuto al lavoro paziente ed anonimo di tante persone – che peraltro non impedì la tragica perdita, in un’imboscata, del Mar. Giovanni Pezzulo.
A quel tempo, il Washington Post pubblicò un articolo molto positivo sul lavoro svolto dall’Italia nella regione, grazie alla cooperazione fra militari e civili. Il Comandante NATO in teatro, il Gen. McNeill, fece circolare tra i comandi territoriali (anche l’inglese, il tedesco e l’americano) un rapporto elogiativo dell’esperimento italiano a Surobi, incoraggiando a fare altrettanto: la fiducia della popolazione si può ottenere ed è la chiave del successo – esattamente quanto ripetuto oggi dal famoso rapporto McChrystal.
Quando arrivò il turno dei francesi, il “segreto del successo” fu spiegato chiaramente: aprire canali di dialogo, preparare il terreno con opere umanitarie e poi continuare con interventi di assistenza finanziati dai militari, in un processo costante. La risposta fu candida: “Noi queste risorse non le abbiamo, dovremo fare senza”. E alla scarsità di mezzi si aggiunse purtroppo una preparazione disastrosa di quella prima, dannata sortita francese a Surobi nell’agosto 2008. Americani, francesi e inglesi lo sanno benissimo. Come sanno benissimo che i rispettivi atteggiamenti nei confronti della popolazione non sono immuni da reazioni: diffidenza nei confronti degli inglesi, percepiti come infidi; odio verso gli americani che, senza alcuna consultazione e con una catena di comando ingovernabile, hanno spesso bombardato proprio i referenti con cui altri alleati avevano trattato, soprattutto al Sud.
Le accuse del Times non sono solo infondate. Sono anche strumentali: si rivolgono, infatti, ad un pubblico britannico fiero delle proprie Forze Armate ma stanco delle perdite, riattizzando ad arte il topos dell’Italia incapace di combattere, da sempre parte della vulgata britannica. Ma la realtà è che l’idea di negoziare con i Talebani, tentando di dividerli, è proprio di matrice inglese, almeno nella sua teorizzazione “formale”. Il primo accordo di tale tipo fu concluso infatti nel 2006 a Musa Qala, nella provincia di Helmand (sotto controllo inglese), dal Generale britannico David Richards – allora Comandante delle truppe NATO e oggi Capo di Stato Maggiore dell’Esercito inglese. L’accordo – negoziato secondo alcuni per estrarre un plotone inglese intrappolato – fu anche rotto più volte, la prima dallo stesso Richards. Esso prevedeva il ritiro della NATO dalla zona, in cambio dell’impegno dei capi locali a mantenere la non belligeranza ed evitare infiltrazioni. Era una comoda finzione: i Talebani sono afghani che cambiano cappello, pro o contro il Governo, e quindi l’accordo mirava in realtà ad evitare che i gruppi locali combattessero attivamente lo Stato ed i suoi sostenitori stranieri.
Nel 2006, ancora in era Bush, l’accordo negoziato dagli inglesi mandò su tutte le furie Karzai e gli americani – che non erano stati consultati e che videro nella mossa una scelta azzardata. Di conseguenza, l’insofferenza di Washington e di Karzai verso i britannici aumentò notevolmente (con punte di vera paranoia nel caso di Karzai). I britannici tuttavia continuarono nella loro politica. Il Gen. Richards aveva infatti già capito che la guerra non si poteva vincere solo sul piano militare, ma si guardò bene dal dirlo e consegnò il comando al suo successore sulla base di una propaganda ottimista. Il punto di rottura si raggiunse nel dicembre 2007, quando Karzai – dietro evidenti pressioni USA – espulse Michael Semple e Mervyn Patterson, due persone molto capaci: rispettivamente un irlandese dell’Eire e un irlandese del Nord, impiegati da organizzazioni internazionali (UE e ONU), che furono accusati di negoziati non autorizzati con i Talebani. Quello che non si disse apertamente, ma era chiaro a tutti, fu che la regia in base a cui Semple e Patterson si erano mossi era inglese; diretta a spezzare gli insorti nella provincia di Helmand, addirittura creando campi d’addestramento per coloro che si sarebbero potuti “recuperare” in seguito.
Eletto Obama, tuttavia, gli USA hanno cominciato a seguire sempre di più la Gran Bretagna sulla strada dell’intesa. C’è solo un problema: fare accettare all’opinione pubblica mondiale che, tutto sommato, con i Talebani si può, anzi si deve parlare. Così, con un’attenta orchestrazione mediatica, tra rivelazioni e confidenze, articoli di giornali e analisi accademiche, l’idea del negoziato è riemersa dalle nebbie. Nel numero di luglio/agosto 2009 di Foreign Affairs, proprio il già ricordato Michael Semple firma con Fotini Christia un articolo intitolato “Flipping the Taliban”: una riflessione sulla necessità di aprire fratture nel fronte talebano, riproponendo quanto nel 2006 era tabù. Nel frattempo circolano anche resoconti di giornalisti inglesi (ad esempio Stephen Grey) su come Semple, prima di essere espulso, avesse informato il Governo afghano che esisteva una possibilità di successo in cambio di rassicurazioni a certi settori degli insorti. Il sottinteso è: Karzai ha bloccato i contatti perché non era suo interesse negoziare, preferendo invece continuare i suoi traffici e connivenze, che alla fine alimentano l’insurrezione.
Ecco allora che sotto il dibattito sul negoziato con i Talebani – sulla cui necessità non c’è ormai più alcun dubbio, anche per ragioni prettamente militari – si nasconde un altro problema: cosa fare di Karzai. Un diverso governo post-Karzai darebbe infatti la copertura politica per un’intesa generale. Altrimenti, mantenendo alla guida del paese Karzai, si dovrebbe cercare una transizione morbida, sperando che Abdullah accetti di gestire un’opposizione costruttiva. Sulla prima tesi, in un primo momento, si sono schierati Richard Holbrooke, Hillary Clinton e gli inglesi – in particolare l’Inviato Speciale per Afghanistan e Pakistan (Ambasciatore a Kabul durante l’espulsione di Semple). A sostenere la seconda il fronte più moderato della NATO e, oltre-atlantico, Joe Biden. Sul secondo fronte, implicitamente, c’è anche l’attuale Comandante di ISAF McChrystal, che ha fatto capire chiaro e tondo che senza forze aggiuntive non può fare miracoli – ma che, nel frattempo, si è preso come consigliere per la transizione il Gen. Lamb, britannico, esperto di negoziato con gli insorti in Iraq.
La questione di come gestire la transizione spacca quindi la NATO e i governi coinvolti (o almeno quelli che si pongono il problema), in particolare l’amministrazione Obama. Sull’Afghanistan, come ha commentato un fine osservatore, “la lotta per la leadership democratica negli USA non è mai finita”. In questo dibattito strategico s’inserisce la scelta tattica di come trattare ogni giorno coi Talebani – meglio, con gli antigovernativi. Il modello anglosassone è muscolare e mirato a dividere i vertici (pagandoli, all’occorrenza, un bel pò di soldi); il resto dell’Alleanza propende invece per una manovra avvolgente, più lenta ma costante. Nel mezzo si pone la NATO come istituzione, che non ha mai potuto stabilire una strategia identica per tutti, perché in definitiva ciò che si può fare in ogni area dipende da quanto ogni Paese decide di spendere e da quanti soldati decide di inviare. Questa inevitabile varietà di interventi ha creato o approfondito diffidenze reciproche, limitando finora gli scambi d’informazione – cosa che ha finito per riflettersi negativamente anche su quello che era invece un caso di successo italiano a Surobi.
Insomma: si parte dal rapporto con i Talebani e si arriva al rapporto tra alleati. Resta il fatto che nessuno vuole perdere la faccia. E la Gran Bretagna, che tra i Paesi europei è il più esposto e ha già perso oltre 200 soldati in Afghanistan, è nei guai più degli altri: premere per una sistemazione generale e stare alla guida del “negoziato intelligente” è perciò questione d’interesse nazionale. L’articolo del Times dimostra soprattutto un gran nervosismo, con la necessità di trovare capri espiatori, così da fare emergere gli inglesi come campioni del “negoziato giusto”. In misure diverse, il peso delle priorità interne prevale, in tutti i paesi, sulle esigenze di cooperazione con gli alleati.
Per quanto riguarda in modo specifico l’Italia, perfidia inglese a parte, se non riusciamo neanche a spiegare quello che abbiamo fatto bene, ci sarà impossibile influire su un processo che, come si è visto, conosce anche colpi bassi.