L’America o il suo Presidente?
L'America o il suo Presidente?
Al termine del tour europeo di Donald Trump, che lo ha portato al vertice NATO di Bruxelles, a Londra, e poi a Helsinki per l’incontro con Vladimir Putin, un quesito si pone con intensità per i vecchi alleati dell’America: il Presidente parla effettivamente a nome degli Stati Uniti? In altri termini, è il momento di fondare importanti scelte strategiche (e non soltanto reazioni immediate di controllo dei danni) su ciò che Trump dichiara? Oppure è meglio esercitare cautela e soprattutto pazienza, lasciando scorrere il fiume della sua retorica presidenziale non ortodossa e attendendo che passi l’ultima tempesta – come ha fatto ad esempio Angela Merkel quando la Germania è stata accusata di essere asservita alla Russia in ragione delle forniture energetiche? Meglio insomma tenere la barra diritta in attesa soltanto che finisca questa presidenza?
A un livello strettamente istituzionale e formale, è chiaro che la risposta alla domanda iniziale è affermativa: il Comandante in Capo rappresenta, a tutti gli effetti, la più grande potenza mondiale sul piano internazionale. Ci sono però due problemi. Il primo è che Trump utilizza strumenti comunicativi diversi dai suoi predecessori, e lo fa smentendo se stesso con regolarità, o più spesso lasciandosi in parte smentire da altri membri del suo governo. Sovvertendo molte convenzioni e regole non scritte dei rapporti con gli alleati – a volte anche con gli avversari – Trump genera un alone di incertezza permanente in cui fondamentali decisioni strategiche vanno prese in base a una qualche interpretazione delle sue ultime parole; e queste continuano a cambiare anche in modo significativo (ad esempio sulle responsabilità del governo russo nei tentativi di influenzare la campagna elettorale del 2016).
Il secondo problema specifico posto da questo Presidente è che buona parte dell’establishment americano (anche nel Partito Republicano) manifesta apertamente dissenso o quantomeno preoccupazione per lo stile e talvolta la sostanza di quanto viene dichiarato dal Capo dell’esecutivo. Una situazione fuori dall’ordinario che non si può ignorare, visto che la rete dei rapporti transatlantici, ma lo stesso vale per i partner degli USA ovunque nel mondo, è fitta e ben più ampia dei vertici governativi. Chi interagisce con i diplomatici americani, o con i membri delle forze armate, sa bene che il loro lavoro è diventato estremamente difficile.
Con un Presidente così sistematicamente non diplomatico che mette sul tavolo proposte e ipotesi di vera rottura, ad esempio consigliando a Theresa May di “fare causa” alla UE, è necessario affrontare di petto quesiti nuovi con una mente aperta: gli alleati europei dell’America devono infatti organizzare un approccio comune piuttosto diverso dal passato se la linea Trump durerà oltre le presidenziali del 2020. Stante che quella “linea” è ondivaga, a dispetto di alcuni tratti ricorrenti che si cerca quasi disperatamente di rintracciare nelle politiche trumpiane: sappiamo che gli altri membri della NATO dovrebbero spendere di più per la difesa, ma a quale scopo esattamente cioè con quali obiettivi condivisi, e che cifra sarà poi sufficiente per accontentare Washington? Sappiamo anche che l’Amministrazione vuole fortemente ridurre il deficit commerciale americano, ma che criterio propone per attuare in concreto la logica del “fair trade” agli scambi globali?
Non resta allora che porsi un altro quesito: in che direzione sta andando l’America come “sistema Paese”, perfino a prescindere dalle scelte di breve e medio respiro del suo Presidente? E’ anche possibile che una risposta secca e univoca non ci sia, cioè che la maggioranza degli americani e le loro leadership non abbiano realmente deciso; in una società democratica complessa e in un contesto globale in rapido cambiamento, questo non è strano. In ultima analisi, comunque, è qui che si deve scrutare per intravedere il futuro, piuttosto che nei tweet presidenziali e nelle conferenze stampa.