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Zimbabwe post-Mugabe: pochi cambiamenti e molti rischi di contagio regionale

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E’ giusto non abusare di stilemi triti; però quale miglior esempio del concetto di “gattopardismo”, e cioè il celebre “cambiare tutto perché nulla cambi”, per l’attuale Zimbabwe?

Solo pochi mesi fa la situazione sembrava saldamente vincolata sui binari dello status quo. Robert Mugabe, padre-padrone dell’ex Rhodesia britannica dal 1980, era in procinto di ricandidarsi come unico runner alla Presidenza, per un quinquennio che anagrafe alla mano avrebbe sancito un record: un mandato dai 93 ai 98 anni di età. In qualità sia di Capo dello Stato che di Capo supremo delle forze armate.

Così dovevano andare le cose, e nei fatti andranno in modo simile, dopo uno dei colpi di stato più stravaganti dell’ultimo decennio. A dirla tutta, un “non colpo di stato” avvenuto nella capitale Harare a metà novembre che, appunto gattopardescamente, sostituisce Mugabe con l’uomo che per lunghissimo periodo ne è stato il braccio destro nel partito di regime (lo ZANU-PF) e nel governo: Emmerson Mnangagwa, un ragazzino 75enne che si appresta a confermare lo Zimbabwe nella collocazione attuale.

Quale? Essere l’avamposto cinese nel cuore dell’Africa sud-orientale, da quando Pechino incarna il potere coloniale 3.0, grazie al controllo delle miniere di diamanti e del relativo Kimberley Process (KP), cioè l’accordo di certificazione tra paesi estrattori e paesi di commercializzazione. Il meccanismo risale al 2000 e prende il nome dalla città sudafricana dove si tenne la Conferenza sul tema. E’ oggi sostenuto da 37 paesi, con lo scopo di moralizzare il commercio dei diamanti affinché esso non sia il motore economico di guerre civili (come fonte di finanziamento di gruppi armati) o violazioni di diritti umani. Ricordiamo che le miniere dello Zimbabwe possono arrivare a fruttare duecento milioni di dollari al mese.

Il “Coccodrillo”, questo l’ormai celebre soprannome di Mnangagwa (che ben illustra le qualità intimidatorie dell’uomo e del politico) al momento del colpo di stato stava scontando un breve periodo di esilio. Era stato proprio Mugabe ad allontanarlo – probabilmente consigliato dall’altra figura iperbolica della vicenda, la First Lady Grace Mugabe – nelle sembianze di una Lady Macbeth a sud dell’Equatore. Occorre ricordare come Mnangagwa sia stato da sempre al fianco di Mugabe. Prima nella lotta per l’Indipendenza dagli inglesi, e poi ricoprendo di volta in volta posizioni chiave nell’organigramma del potere, dai servizi d’intelligence fino ai ministeri più importanti.

Come la CNN ha rivelato, solo pochi giorni prima del colpo di stato “morbido” il generale Constantin Chiwenga aveva fatto visita a Pechino. Due più due fa quattro – anche in questo Paese che ha dimostrato di saper capovolgere i numeri, azzerando in pochi decenni forse la più florida economia africana del XX secolo. Insomma, l’ingerenza o la supervisione cinese nella transizione dello Zimbabwe – e in larga parte del resto del Continente – è ormai scontata.

Questo apre una riflessione in merito allo smacco, o perlomeno alla partita di retroguardia, delle potenze Occidentali in tutta la vicenda. Non solo Londra, ma soprattutto gli Stati Uniti restano per ora con nulla in mano. E sì che Washington sulla transizione dello Zimbabwe stava investendo da anni: specialmente sulla figura del leader dell’opposizione Morgan Tsvangirai.

Questo ex sindacalista ha patito negli anni la repressione di Mugabe, cadendo vittima anche di violenti attacchi alla sua persona. Ha conosciuto il carcere, prima e dopo la sua nomina a Primo Ministro dal 2009 al 2013 in ticket con Mugabe Presidente, carica che quest’ultimo gli aveva concesso in un momento di debolezza ma poi gli aveva revocato appena ne ebbe di nuovo la forza. Legato anagraficamente agli anni dell’ascesa di Obama negli Stati Uniti, Tsvangirai è stato visto in Occidente come il Mandela della situazione, e solo i dubbi sulla sua salute forse ne impediscono oggi, dopo il suo ritorno ad Harare, la definitiva affermazione.

E’ peraltro possibile, per la semplice circostanza che qualsiasi opzione in Zimbabwe è sempre realistica, che le elezioni in programma nel 2018  vengano sospese. Le motivazioni potrebbero essere svariate, a partire dal costo economico della consultazione in un paese ormai al collasso valutario e di beni di prima necessità. La sospensione sarebbe il viatico ad un accordo che potremmo chiamare di pacificazione nazionale, tra Mnangagwa e Tsvangirai. Più che pacificazione nazionale il patto sancirebbe la spartizione per sfere d’influenza dello Zimbabwe, tra Oriente ed Occidente.

Se è vero che i diamanti sono il bene fondamentale del paese, qualsiasi discorso di riforma politica o rinascita dell’economia nazionale non può prescindere dal rilancio dell’agricoltura. Si calcolano in almeno 4.500 le tenute espropriate dal regime di Mugabe ai contadini (o tenutari in qualche caso) bianchi, e finite in dono ai gerarchi fedelissimi di Mugabe o veterani della guerra d’indipendenza. Queste terre, concepite come status sociale e non come fattore di reddito, sono rimaste di fatto inattive e progressivamente decadute. Un feudalesimo africano dove il latifondo serve in termini di prestigio e non d’investimento produttivo.

La riforma agraria potrebbe, nell’immediato, dare una risposta al problema degli approvvigionamenti alimentari, e nel breve periodo costituire la base per lo Zimbabwe democratico del futuro. Ma non bisogna mai dimenticare a quale latitudine ci troviamo. Ciò che lascia perplessi molti osservatori è infatti questa sorta di paradigma capovolto per cui, invece di prendere esempio virtuoso da altre economie africane in crescita e stabilità (vedi il Ghana), è lo Zimbabwe a influenzare negativamente i vicini.

La riforma agraria distorta che condanna oggi Harare assomiglia a quella che condannò a suo tempo lo Zambia e che rischia di punire a breve anche il Sudafrica del Presidente Jacob Zuma, il quale si sta avvicinando pericolosamente al proprio “Mugabe Moment”.

L’Africa australe, insomma, con la transizione gattopardesca dello Zimbabwe e la crisi incipiente del Sudafrica, potrebbe segnare la fine del progetto liberale che si basava sul compromesso di un potere esecutivo in mano ai nativi neri e costituzioni pensate per garantire i diritti delle minoranze bianche (nonché gli investimenti esteri). Zuma come Mugabe sembra invece aver intrapreso la strada di un’espropriazione della terra ispirata al populismo. In modo tale, non risolverebbe la legittima domanda dal basso delle fasce più povere e penalizzerebbe irreversibilmente l’economia, con l’aggiunta dell’immancabile nota clientelare.

D’altronde la logica molto africana del “winner takes all” impedisce la transizione anche in Mozambico, dove la crisi tra il potere detenuto dal partito rivoluzionario Frelimo (nato contro la dominazione portoghese) e l’opposizione guidata dal Renamo vede qui anche elementi di guerriglia classica fronteggiarsi. Ma il punto rimane il medesimo: l’incapacità dei regimi al potere di liberarsi delle loro ideologie marxiste e delle attuali clientele fameliche. Queste ultime, se da una parte garantiscono la sopravvivenza giorno per giorno, difficilmente possono aiutare il manovratore nel momento del collasso.

In genere gli si sostituiscono, come Mnangagwa con Mugabe. Insomma, come si diceva in principio, cambiare tutto perché nulla cambi.