USA-UK: Special relationship o dipendenza speciale?
Nonostante il declino britannico e la Brexit, la “special relationship” con gli Stati Uniti sembra destinata a rimanere importante anche per Washington: il suo valore dipende però dalle capacità che la Gran Bretagna potrà mettere a disposizione. Le recenti scelte di spesa militare di Londra puntano in effetti a rafforzare la capacità di proiezione della potenza navale per eventuali missioni congiunte con gli americani.
All’alba del 21 novembre 1918, le maestose bandiere da combattimento erano spiegate su quaranta poderosi incrociatori da battaglia e corazzate Dreadnought e super-Dreadnought, assieme a ben 250 incrociatori e cacciatorpediniere dell’imponente Grand Fleet della Royal Navy. Quelle navi presero il largo per andare incontro a quella che avrebbe dovuto essere la loro nemesi – la Hochseeflotte tedesca – e accettarne la resa, per poi scortarla fino al Forth Railway Bridge sul Firth of Forth, sulla costa orientale della Scozia. La supremazia navale britannica era tale che la Royal Navy si divise in due file ai lati delle navi tedesche nemiche. Non era una semplice vittoria, ma un trionfo totale. Ed era l’apice di oltre quattro secoli di potenza navale britannica.
Il punto, però, è che i britannici non erano soli. La resa tedesca fu accettata anche della Battleship Division Nine della Marina statunitense capeggiata dalla Dreadnought uss New York. La storia oggi insegna che il momento del grande trionfo della Royal Navy segnò per la Gran Bretagna anche l’inizio di una lunga e dolorosa discesa dall’apogeo del potere mondiale e della cessione della sua supremazia agli Stati Uniti – un processo che sarebbe poi continuato per gran parte del Novecento. Con il presidente Trump alla Casa Bianca e le sirene della Brexit, qual è oggi lo stato della special relationship?
IL LUNGO DECLINO BRITANNICO. Le rispettive fortune della Royal Navy e della us Navy sono assurte a metafora di un rapporto che per oltre un secolo è stato utile anche all’Occidente, come fondamentale partnership di valore strategico. Il declino della Gran Bretagna non fu immediato, e per un certo periodo non fu neppure evidente, anche se nel 1922 molte delle navi che avevano sconfitto la marina tedesca finirono sotto la scure della politica di tagli nota come Geddes Axe, tanto erano malmesse le finanze postbelliche e ingente l’indebitamento di Londra con le banche americane. In effetti, quello britannico fu un lungo declino.
Negli anni Venti e Trenta gli Stati Uniti decisero di fare un passo indietro, ripiegando sull’isolazionismo. E così la Gran Bretagna, già finanziariamente provata dopo la grande vittoria nella prima guerra mondiale, dovette stringere i denti e andare avanti per mantenere almeno una parvenza della sua potenza mondiale e supremazia navale. Di fronte all’ascesa dell’Italia fascista nel Mediterraneo, della Germania nazista nelle sue stesse acque territoriali e del nazionalismo aggressivo del Giappone nell’Estremo Oriente, e data la difficoltà di mantenere i legami strategici in seno all’impero britannico, quello sforzo diventò sempre più vano.
Poi arrivò la seconda guerra mondiale. La Gran Bretagna svolse ancora una volta un ruolo fondamentale ai fini della vittoria, ma in ultima istanza a farne le spese fu la sua immagine di potenza, reale o presunta che fosse.
Quello che nell’agosto 1941, dopo l’incontro tra il presidente Roosevelt e il primo ministro Churchill culminato nella Carta atlantica, era stato descritto come un “rapporto speciale”, a partire dall’anno successivo assunse rapidamente i tratti di una “dipendenza speciale”, con la Gran Bretagna nel ruolo di partner debole. Come a rimarcare il declino britannico, la HMS Prince of Wales, la nave da battaglia nuova di zecca che aveva portato Churchill a quell’incontro, fu affondata dai giapponesi due giorni dopo Pearl Harbor, con pesanti perdite di vite umane.
Il rapporto odierno è l’erede naturale di un glorioso passato. Nonostante i bei discorsi sulla special relationship ai quali Londra – più che Washington – indulge volentieri, il legame USA-UK (in quest’ordine) è sempre dipeso dalla forza che la Gran Bretagna può mettere al servizio dell’America. A ben vedere, l’idea di un rapporto “speciale” è sempre stata un ossimoro, nel senso che tutti i paesi da cui provengono vaste porzioni della popolazione americana possono essere considerati partner “speciali”. I polacchi, gli irlandesi, sempre più i messicani e, naturalmente, gli italiani possono vantare un rapporto di questo tipo, semplicemente per via del gran numero di americani che si identificano con i loro antenati immigrati, e al tempo stesso godono del diritto di voto negli Stati Uniti. Lo stesso vale per Israele. Ma che dire della Gran Bretagna?
UN RAPPORTO ANCORA INSOSTITUIBILE. Eppure, il rapporto USA-UK riveste ancora un’importanza strategica per gli americani, per molteplici ragioni. Primo, le forze armate britanniche, nonostante Londra tenti di ridimensionarle con i ripetuti tagli alla difesa, sono a tutt’oggi le migliori d’Europa. Secondo, i servizi di intelligence britannici restano imbattuti su fronti cruciali, come il servizio segreto militare russo ha recentemente imparato a sue spese. Se c’è un ambito della cooperazione strategica usa-uk che può essere considerato “speciale”, e nel quale Londra non è seconda a nessuno, è proprio quello dei fondamentali rapporti di intelligence. Terzo, gli americani non dispongono in Europa di un alleato altrettanto forte e al tempo stesso affidabile. Il presidente Trump ha flirtato con l’omologo francese Macron, ma i limiti strutturali del rapporto franco-americano sono tornati a farsi sentire. Quando si arriva al dunque, la dialettica tra l’eccezionalismo americano e il gollismo francese diventa (nel migliore dei casi) ostica.
E la Germania? Negli ultimi anni (almeno fino all’amministrazione Trump) gli americani si sono molto prodigati per costruire una sorta di rapporto “speciale” tra Berlino e Washington. Tuttavia, i tedeschi mostrano nei loro riguardi la stessa ambivalenza riservata ai russi. Quello tra Stati Uniti e Germania è probabilmente il rapporto transatlantico più “essenziale” dei giorni nostri, ma non è certo “speciale”. Per dirla in parole povere, entrambi passano troppo tempo a preoccuparsi l’uno dell’altro. E l’Italia, quarta grande potenza d’Europa? Con tutto il rispetto, il paese potrebbe occupare una posizione strategica ma, data la mancanza di quella che si può definire una cultura strategica nazionale, e complice la sua instabilità politica e la sua autoreferenzialità, Roma gode di scarsissima influenza sulla politica americana (al di là di quella che le assicurano gli italo-americani d’oltreoceano).
RAPPORTI SPECIALI IN STILE TRUMP. Quel che è cambiato – e in effetti sta ancora cambiando – nella special relationship è che, con l’elezione del presidente Trump, la partnership strategica usa-uk è molto più improntata a una logica transactional, di contrattazione alla ricerca di accordi caso per caso e temporanei. L’inquilino della Casa Bianca valuta quasi tutti i suoi interlocutori in base ai vantaggi che può trarne l’America. Il paradosso è che la visione del mondo trumpiana non dispiace affatto ai britannici attivi a Washington. Prendiamo gli investimenti diretti esteri in America, un vero banco di prova dell’era Trump. Con circa 614 miliardi di dollari nel 2017, la Gran Bretagna rimane di gran lunga la più importante fonte di investimenti diretti esteri negli Stati Uniti, davanti al Canada (altro stretto alleato britannico). Quella cifra rappresenta ben il 15,3% del totale, a fronte del 10,1% della Germania, del 7,5% della Francia e dell’1,4% della Cina. Se c’è qualcosa di “speciale” per il presidente, sta tutto in quei numeri.
Inoltre, Trump non ama l’ue, a differenza del grosso dell’establishment di Washington. Preferisce nettamente che gli Stati Uniti abbiano a che fare con coalizioni a maglie larghe, su cui poter esercitare un’influenza critica. Anzi, la Dottrina Trump – se tale la si può definire – postula proprio l’allontanamento dell’America dall’internazionalismo istituzionale e il suo avvicinamento a un “coalizionismo” molto più flessibile. I pilastri del rapporto americano con la Gran Bretagna, come il cosiddetto accordo ukusa sul quale si basa l’ancor più influente alleanza d’intelligence nota come “Five Eyes”, sono ben graditi a Trump. In realtà, il rischio per la NATO e l’UE è che aggregazioni come Five Eyes si trasformino in coalizioni strategiche di potenze ideologicamente affini a guida americana, con Washington al centro di un nuovo “Occidente” globale più teorico che geografico. In quel caso il sostegno americano all’influenza della Gran Bretagna in Europa non verrà meno, neppure se con l’uscita dall’UE tale influenza prendesse una diversa direzione. Qualora la situazione europea sul piano della sicurezza si deteriorasse ulteriormente, il “barometro” del potere in Europa potrebbe privilegiare di nuovo la forza militare e di intelligence, a detrimento dei progetti di unione monetaria o politica.
UNA “DIPENDENZA SPECIALE” POST-BREXIT? Per tutti i motivi di cui sopra, nonostante la Brexit, la Gran Bretagna continua a essere per l’America il partner più importante, affidabile e naturale in Europa. Molti commentatori hanno ipotizzato che l’importanza e l’influenza della Londra post-Brexit sugli Stati Uniti andranno incontro a un ulteriore declino. Certo è che Washington preferirebbe che il paese rimanesse nell’UE per continuare a esercitare la sua influenza pragmatica su Bruxelles. Tuttavia, curiosamente, negli Stati Uniti molte delle critiche rivolte alla Brexit arrivano dal campo democratico, e in particolare da quell’ala del Partito Democratico che ancora si culla nell’illusione che gli Stati Uniti d’Europa siano: a) un’ipotesi del tutto probabile; b) assimilabili agli Stati Uniti d’America; c) un alleato naturale degli americani, se quell’ipotesi si concretizzasse. I pragmatisti e realisti di Washington appaiono invece preoccupati non tanto per la Brexit, quanto per il rischio di una scissione in seno al Regno Unito tra Inghilterra e Scozia, che potrebbe innescare il tracollo del paese e segnare la fine della Gran Bretagna e della sua tradizione internazionalista filoamericana.
In questo scenario, l’appello rivolto nel 1968 dal segretario di Stato americano Dean Rusk al suo omologo britannico George Brown – “Ricordatevi che siete la Gran Bretagna, per Dio!” – rispecchia quella che è ancora una convinzione diffusa nell’élite di Washington: pur con le sue tante e spesso autoinflitte criticità, la Gran Bretagna rimane un paese europeo di rilievo strategico. È per questa ragione che gli americani continuano a offrire ai britannici un accesso senza pari alla loro tecnologia missilistica balistico-nucleare. Tanto più ora che Londra sta costruendo quattro nuovi sommergibili lanciamissili balistici nucleari di classe Dreadnought in sostituzione di altrettante unità navali di classe Vanguard nell’ambito del programma Successor. La sfida per i britannici starà nel mantenere viva quella tradizione strategica, perché se Londra decidesse di abbandonarla, quello sarebbe il momento in cui ogni parvenza di special relationship tra i due paesi verrebbe meno. Il rischio che ciò accada è concreto. Se mai Jeremy Corbyn (che 2015 è a capo del partito laburista) salisse al potere, metterebbe sicuramente fine a quella che considera una follia imperialista post-imperiale.
PERCHÈ IL RAPPORTO È ANCORA SPECIALE. Nonostante la Brexit e il presidente Trump, la partnership strategica usa-uk sta vivendo di fatto una sorta di rilancio. Nel settembre 2018, quasi un secolo dopo la sconfitta della Hochseeflotte a opera della Grand Fleet, due cacciabombardieri f-35b sono atterrati per la prima volta sul ponte di una portaerei britannica da 75.000 tonnellate nuova di zecca, la HMS Queen Elizabeth. Uno degli aerei era guidato da un pilota della Fleet Air Arm della Royal Navy, l’altro da un pilota del Corpo dei Marines. A riprova di quanto sia ancora stretto il rapporto militare USA-UK, in futuro i Marines opereranno regolarmente dai ponti delle due nuove portaerei pesanti britanniche HMS Queen Elizabeth e HMS Prince of Wales.
Quello della resa della Hochseeflotte non è stato l’unico centenario del 2018. Esattamente un secolo fa i britannici commissionarono la hms Argus, la prima vera portaerei di Sua Maestà. Con la hms Queen Elizabeth in procinto di diventare operativa, il paese torna protagonista del gioco di proiezione di potenza/attacco navale che a suo tempo ha creato. E la Royal Navy assicura agli americani un vantaggio decisivo come nessun altro in Europa, sebbene oggi sia solo la 35° Marina al mondo per tonnellaggio e impallidisca al confronto con l’illustre antenata. A partire dal 2021, i britannici saranno in grado di alleggerire la pressione sulle forze statunitensi, messe a dura prova dal loro dispiegamento globale, avendo la capacità di proiettare una vera potenza navale nel Nord Atlantico e nel Mediterraneo. Non solo: grazie al programma di sviluppo della Royal Navy, e in particolare ai nuovi sottomarini da attacco nucleare di classe Astute e alle fregate Type 26 e Type 31, potranno vantare una Marina assolutamente senza pari in Europa.
Perché tutto ciò è importante? Nonostante la retorica d’impronta churchilliana sottesa alla special relationship, questa può dirsi tale se, e solo se, i britannici investono su ciò che interessa davvero all’America. Il quel caso, Londra può contare sul sostegno degli americani, come si è visto (presto o tardi) nel corso della Guerra delle Falkland del 1982. Altrimenti, per Washington il rapporto perde di significato.
Il risvolto di tutto ciò è che forse sono gli europei continentali a doversi preoccupare. Nonostante i discorsi di Londra sull’indefesso impegno britannico a difesa dell’Europa attraverso la NATO, e a dispetto della punizione inflitta da Bruxelles dopo la Brexit, le scelte strategiche e di difesa che la Gran Bretagna sta compiendo suggeriscono un’altra chiave di lettura. Lungi dall’investire nelle forze terrestri per aumentare il deterrente dell’Alleanza, come vorrebbe la maggior parte degli europei, Londra sta invece concentrando la sua spesa per la difesa in un nuovo deterrente nucleare per proteggere se stessa, e in una proiezione di potenza navale/marittima per eventuali missioni congiunte con gli americani.
Non c’è da meditare, Europa?