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Un possibile rilancio per Biden: le sfide intrecciate in casa e all’estero

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La volontà della maggioranza degli americani di difendere i diritti civili; il pericolo per la democrazia rappresentato dai trumpiani; i risultati ottenuti dall’amministrazione Biden, per quanto non ancora pienamente dispiegati. Sono probabilmente questi i fattori che hanno determinato un risultato più che buono per i Democratici alle elezioni di metà mandato. Negli ultimi cinquant’ anni solo tre volte il presidente in carica aveva perso così pochi seggi – nel caso del Senato nessuno o, se il Senatore Warlock verrà confermato in Georgia, addirittura un seggio guadagnato. A differenza dei precedenti di Bill Clinton (’98) e George W. Bush (’02) la popolarità del presidente non ha fatto da traino ai candidati, non c’è una guerra in corso in cui siano direttamente impegnate forze americane, e il Partito Democratico non era in minoranza. E’ tenendo conto di questi aspetti che va valutato l’esito elettorale.

Supporter democratici seguono lo scrutinio delle Midterm 2022

 

Il quadro politico nazionale rimane però estremamente polarizzato: i candidati sostenuti dall’ex presidente Trump vincono soprattutto nei distretti elettorali saldamente in mano repubblicana, il che implica una radicalizzazione e maggiore distanza di quei territori dal “centro” politico del Paese. Con il consolidarsi delle appartenenze, il voto de i cosiddetti indipendenti diviene così quello cruciale per eccellenza e, nel 2022, questo sembra aver premiato i Democratici. Si tratta di una buona notizia per il partito di Biden che avrebbe ottenuto il 49% dei consensi di quel segmento di elettori – dal 2006 in poi gli indipendenti sono stati cruciali nel determinare le sconfitte del partito del presidente nel voto di midterm.

Dal punto di vista della geografia elettorale il risultato del 2022 è in qualche modo un ribaltamento di quel voto del Midwest che consentì a Trump di arrivare alla Casa Bianca nel 2016: in Michigan i Dem conquistano ogni carica possibile, in Minnesota confermano il governatore e hanno la maggioranza nelle assemblee legislative statali, in Pennsylvania conquistano un senatore e confermano il governatore. Ohio e Wisconsin rimangono contendibili: sia il candidato in Senato Ohio (Tim Ryan) che quello in Wisconsin (Mandela Barnes) riducono il divario con il loro avversario repubblicano. In questo contesto l’emergere e la conferma di figure politiche di rilievo nazionale come la governatrice del Michigan Whitmer e il neo-Senatore Fetterman sono pure una buona notizia, si tratta di figure politiche e umane che incarnano un modo popolare e schietto di essere Democratico che è agli antipodi di quello che i Repubblicani hanno buon gioco a segnalare come elitario. Nel discorso alla festa per la vittoria Fetterman ha segnalato quanto sia stato importante fare campagna anche nelle contee dominate da Trump anche nel 2020 e dove il neo-Senatore ha perso riducendo lo svantaggio di 4 o 5 punti. Si può insomma dire che la presidenza Biden e i candidati scelti sono stati una buona cura per la annosa questione del voto bianco e operaio del Midwest.

Parlando sempre di geografia elettorale, i Democratici consolidano la loro presenza nel West, continuano a contendere la Georgia a Sud ma vedono allontanarsi la cruciale Florida dai loro schermi e non avanzano come sperato nel Texas. Una serie di errori tecnico-tattici nello Stato di New York segnalano poi una presa di distanze ulteriore di un certo elettorato bianco suburbano (Long Island, ad esempio) dal partito di Biden. Quegli errori hanno provocato un travaso di 4-5 seggi verso i Repubblicani e sono costati la maggioranza alla Camera.

A differenza del GOP, il Partito Democratico non sembra scontare troppo le proprie divisioni interne: la parte più radicale vince e perde così come quella più moderata, molto dipende dalla qualità dei candidati e dai contesti locali. Quel che continua a crescere è la diversità degli eletti del partito di Biden: a livello federale e statale sbarcano più giovani, più appartenenti a tutte le minoranze, più donne. Ma per mantenere questo vantaggio, in calo specie tra gli ispanici, dovranno produrre risultati concreti che parlino a quei gruppi.

Cosa resta da fare ai Democratici in vista del 2024? Ci sono alcuni passaggi che il partito dell’asinello deve e può fare in fretta. Innanzitutto c’è la questione dell’autorizzazione all’aumento del deficit federale, che avviene attraverso un voto del Congresso e che fino a qualche legislatura fa non era un oggetto del contendere. Se in maggioranza, i Repubblicani potrebbero decidere di usare quel voto come arma di ricatto e paralizzare l’attività dell’amministrazione – con un famigerato “government shutdown” di cui si ricordano drammatici precedenti. Un voto in materia prima dell’insediamento del prossimo Congresso, il 3 gennaio, aggirerebbe questo ostacolo. Meno problematico dovrebbe essere il passaggio del National Defense Authorization Act (NDAA), la legge che stanzia le risorse per il Pentagono e che per il 2023 prevede anche fondi per l’esercito ucraino – o per rifornire alcuni magazzini svuotati dagli aiuti militari inviati al paese invaso da Mosca. Ci sono controversie legate al finanziamento di alcuni programmi d’arma che l’amministrazione vorrebbe dismettere, una buona ragione per votare l’NDAA prima di gennaio. Si parla anche di tentare di approvare una legge che costituzionalizzi il diritto di scelta e nuove norme in materia elettorale, battaglie in salita.

 

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La risicata maggioranza repubblicana alla Camera (il GOP dovrebbe conquistare 221 seggi, tre in più della soglia, alla fine dei conteggi) potrebbe essere poi una carta per Biden per portare a casa qualche risultato bipartisan: ci sono questioni legate al reshoring delle filiere produttive sulle quali non dovrebbe essere difficile imbarcare qualche voto repubblicano e il presidente ha mantenuto la sua promessa di cercare almeno qualche forma di accordo con gli avversari. Parallelamente l’amministrazione dovrà mostrare la propria capacità di spendere e organizzare in maniera efficace le risorse destinate alle infrastrutture. Ammesso che i Democratici riescano nell’intento, mostrare che la spesa pubblica è utile a migliorare la qualità della vita e non è uno spreco inutile dei soldi dei contribuenti è ovviamente un argomento forte.

Guardando alle prospettive per il 2024 ci sono poi due domande complicate a cui i Democratici dovranno dare risposta: una dipende solo da loro, l’altra da una grande quantità di fattori. Il presidente Biden avrà 82 anni nel 2024. Come abbiamo visto, nonostante il buon risultato democratico si possa in parte ascrivere anche a Biden, il presidente non è popolare. Gli assalti repubblicani sul suo stato di salute – e alcune gaffe e risposte confuse di fronte alla stampa – hanno probabilmente fatto sedimentare l’idea che non sia la figura più adatta a correre di nuovo. Nella conferenza stampa post-elezioni il presidente ha lasciato intendere che intende ricandidarsi ma che deciderà “in famiglia” intorno a gennaio. Vedremo. Certo è che diverse voci attorno al Partito Democratico suggeriscono un passaggio di testimone.

Un problema aggiuntivo riguarda la vice di Biden: prima donna a ricoprire una carica così in alto nella gerarchia istituzionale USA, Kamala Harris non è apparsa una figura capace di generare entusiasmi. Volendo fare previsioni molto in anticipo e molto azzardate, due figure che appaiono in ascesa sono il Segretario ai trasporti Pete Buttigieg (già candidato alle primarie presidenziali nel 2020) e la Governatrice del Michigan Gretchen Whitmer. Si parla molto del Governatore della California Gavin Newsom, ma questi, con l’aria da playboy e frequentazioni miliardarie, è la tipica figura contro la quale sarebbe facile costruire una campagna populista da destra.

A complicare l’agenda democratica c’è il quadro internazionale e i suoi effetti sugli Stati Uniti. Se uno degli slogan dell’amministrazione è “rimettere le cose a posto a casa per poter tornare a essere leader del mondo”, allo stato c’è anche un problema inverso: restituire una qualche stabilità a un pianeta attraversato da una serie simultanea di crisi epocali (pandemia, guerra in Ucraina, inflazione, clima). Parallelamente, soprattutto a causa della guerra in Ucraina e della tensione con la Cina, gli Stati Uniti stanno attivamente ricostruendo una rete di alleanze internazionali messa a dura prova dalla presidenza Trump.

 

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I profitti legati all’esportazione di gas liquido e alcune tariffe commerciali imposte all’Europa non hanno facilitato la posizione americana presso le opinioni pubbliche e i governi europei. Ovunque si è ribadita l’importanza dell’Alleanza atlantica, ma le crepe si cominciano a vedere e si amplieranno forse con l’inverno. Neppure la politica di reshoring portata avanti dal governo americano per ragioni strategiche e su alcuni segmenti cruciali della produzione sarà bene accolta, ad esempio dalla Germania. Ma non perseguirla indebolirà le promesse di Biden di riportare lavoro industriale “a casa”.

Tenere assieme le cose di casa e gli scenari internazionali non sarà facile ma probabilmente si tratta della missione principale dei prossimi anni di presidenza. Si tratta di compiti complicati e, forse, quei segnali che indicano come Washington sia più propensa a individuare una strada negoziale alla crisi ucraina rispetto agli ultimi mesi non è solo dovuto ai successi ottenuti da Kiev sul campo di battaglia.