international analysis and commentary

Trump, il deal russo e l’Europa

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 Washington, capitale fredda di Trumplandia. Fredda davvero: un vento gelido soffia sulle giacche tutte uguali dei funzionari – qualche migliaia – che stanno lasciando le stanze del potere. E fredda, o forse imbarazzata, in senso psicologico: nessuno, nei vari think tank che si affacciano uno dopo l’altro su Massachusetts Avenue, è in grado di dire con qualche sicurezza cosa intenda fare The Donald in politica estera. È più semplice dire ciò che non farà: continuare come prima.

Per tutti i nostri interlocutori americani, l’elezione di Trump segna la fine di un’epoca: con i suoi alti e i suoi bassi, il sistema internazionale del dopo guerra fredda esce definitivamente di scena. L’America non ne sarà più il pilastro. Finisce così, mi dice con tono scherzoso un politologo di scuola “realista”, il mondo di Davos, con i suoi riti; ma non è chiaro cosa stia cominciando. L’era della de-globalizzazione?

Partiamo dalla parola alla moda: la politica estera di Trump sarà “transactional”, contrattuale. Ossia? Ossia un approccio fondato – più che su istituzioni, principi, alleanze stabili – su accordi ad hoc, su “deal” temporanei: è il metodo del business applicato alla diplomazia. Il deal con un avversario – la Russia di Putin – può venire prima della difesa di un alleato. Contano i singoli interessi americani; conta meno di prima la salvaguardia generale del sistema occidentale, con i suoi valori liberali e le sue istituzioni multilaterali più o meno traballanti.

Aggiungiamo adesso un secondo termine di moda a Washington: Trump sarà un presidente “jacksoniano”. Secondo Walter Russell Mead, studioso delle correnti della politica estera americana, questo significa un mix ben preciso: nazionalismo economico, superiorità militare americana ma uso raro e quanto mai selettivo della forza. La priorità è il rafforzamento interno. All’esterno, la percezione è che le minacce prevalgono nettamente sulle opportunità.

Ciò che unisce i due tratti – la politica estera “transactional” del presidente “jacksoniano” – è la convinzione che il potere vada usato per quello che è. Non per pensare di cambiare il mondo, per sostenere l’architettura internazionale o per esportare la democrazia (secondo le varie visioni o illusioni novecentesche); ma per trattare da posizioni di forza con avversari ed amici.

È un approccio che si può definire “neo-vestfaliano”: adatto ad un attore internazionale come la Russia, forse troppo semplificato per la Cina neo-confuciana e con cui l’Europa dovrà fare seriamente i conti. Vediamo perché.

Con la Russia, il metodo Trump ha buone chance di funzionare: indicando Rex Tillerson quale Segretario di Stato – affidando così la diplomazia americana al CEO di ExxonMobil, che ha legami personali con Putin e tratta da decenni con il mondo petrolifero russo – Trump manda un segnale preciso anche a Mosca. Con un sottotesto pragmatico o forse spregiudicato: accordo sulla Siria, lasciando sullo sfondo l’annessione della Crimea, giudicando secondario il destino dell’Ucraina e gettandosi alle spalle le sanzioni.

È uno scenario – su cui già si orienta il mondo industriale italiano – che sancirebbe l’esistenza di una sfera di influenza russa nel “vicino estero” e un ruolo permanente di Mosca in Medio Oriente, favorendo peraltro anche l’Iran, indicato da Trump come nemico privilegiato. Vantaggi a breve termine ma problemi più a lungo termine. Si può già dare per scontato che parte della politica e della burocrazia di Washington tenderà a mettersi di traverso (primo segnale: le tensioni con la CIA sulle presunte interferenze russe nella campagna elettorale americana).

Se il gioco è più rischioso e complicato con la Cina (in questo caso il suo impatto è globale, non regionale), per l’Europa il timore di fondo è molto semplice: restare emarginata. La logica del deal è che gli europei facciano finalmente la loro parte, nella politica di sicurezza e difesa. Ma  non sarà così semplice, nel dopo Brexit e con la grande incertezza politica che domina nei paesi decisivi. Lo stallo, nel 2017, è annunciato. E Trump avrà rapporti bilaterali: London first, senza perdere di vista una Germania che ha letto con preoccupazione la sua elezione ma che vuole restare la potenza europea di riferimento.

Non è affatto detto che la nuova amministrazione assumerà posizioni contrarie agli interessi europei – o di una parte di loro. Per il Vecchio Continente, la priorità è di salvaguardare il legame con un’America che sembra destinata a una nuova fase di vitalità economica. Per gli osservatori ottimisti, Trump 1 potrebbe essere un Reagan 2.

Il punto è che l’UE, figlia del mondo atlantico, non può più dare quel legame per scontato. Dovrà cambiare radicalmente se vorrà giocare la sua partita in un sistema internazionale più incerto e più duro di quanto sia mai stato dal 1945 in poi. Il vento freddo di Washington sembra quasi un avvertimento. 

Una versione di questo articolo è stata pubblicata su La Stampa del 14/12/2016.