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Trump e il difficile salto dalla retorica alla pratica

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«Non fatemi scendere nei dettagli» è una frase che il portavoce della Casa Bianca ripete spesso, quando gli viene chiesto di parlare della riforma del sistema sanitario o di quella fiscale o del modo in cui l’amministrazione intenda finanziare il piano di infrastrutture promesso in campagna elettorale.

Il primo discorso di Donald Trump al Congresso poteva essere un’occasione per fornire particolari. Non è stato così, se non per pochi aspetti e per l’apertura, solo formale, alla possibilità di collaborare con i Democratici. Con l’opposizione i soli terreni di cooperazione possibile sembrano essere la riforma dell’immigrazione – perché in Senato c’è già chi ha lavorato assieme sulla materia – e l’eventuale piano sulle infrastrutture, una vecchia idea dell’amministrazione Obama che però la maggioranza congressuale del Grand Old Party ha bocciato a più riprese.

Il non scendere nei dettagli è stato una costante delle prime settimane della presidenza Trump, presa dalla frenesia degli annunci e dalla volontà di produrre risultati, ma trovatasi di fronte alla difficoltà di governare. Ovvero operare all’interno di limiti imposti dalle regole, dal bilancio e reperimento delle risorse, di complessità dei dossier.

Un buon esempio di questa difficoltà è la frase pronunciata davanti ai governatori repubblicani sulla sostituzione della riforma sanitaria: «Nessuno sapeva che Obamacare sarebbe stata una cosa tanto complicata». Cioè: ci vorranno mesi e sarà difficile, richiederà negoziati complessi, attenzione estrema per non generare rivolte degli assicurati. La verità è che lo sapevano tutti, a cominciare dai membri della maggioranza repubblicana che se ne occupano in Congresso. Un altro esempio di inciampo è rappresentato dall’”ordine esecutivo” che chiudeva le frontiere ai cittadini di vari Paesi a maggioranza musulmana. La volontà di perseguire un’agenda tanto connotata politicamente ha prodotto un disastro giuridico, aperto un fronte di conflitto con i giudici e fatto fare all’amministrazione una pessima figura planetaria.

Fino al discorso al Congresso, il tratto principale dell’amministrazione Trump sembra essere stato quello di accusare ogni giorno qualcuno per le scelte non fatte, o attribuirsi successi che non sono necessariamente suoi: ad esempio sul calo del deficit, avvenuto prima che il nuovo presidente abbia preso una qualsiasi decisione in materia di spesa o risparmio, o sugli investimenti delle multinazionali, decisi già nel 2016. La retorica non ha risparmiato colpi: i giudici (categoria da cui si sono levate molte contestazioni al cosiddetto muslim ban) sono un nemico e se ci dovesse essere un attentato, la colpa sarà la loro. I media sono il partito di opposizione contro il quale l’amministrazione, come ha affermato Steve Bannon, lo stratega-ideologo di Trump al raduno annuale della CPAC (Conservative Political Action Conference), è in guerra. L’individuazione di un nemico-bersaglio che giustifica le difficoltà di un governo o di un Paese sembra del resto essere una delle caratteristiche dei numerosi esecutivi dai tratti populisti che governano nell’Occidente contemporaneo. Un nazionalismo marcato è un altro tratto che lega i governi (o i partiti) populisti d’Europa con il nuovo corso Repubblicano.

Non sappiamo ancora se e come il presidente Trump saprà aggredire i grandi temi che ha messo in agenda. Ma le decisioni già prese e le nomine fatte segnano comunque una direzione. Abolizione di regole ambientali relative all’inquinamento dell’acqua e dell’obbligo da parte delle compagnie petrolifere di comunicare le transazioni con governi stranieri – una regola tesa a disincentivare la corruzione – assunzione di migliaia di poliziotti di frontiera e di membri dell’ICE, la Immigration and Customs Enforcement, richiesta di aumento delle spese militari del 10% finanziata attraverso tagli ai fondi di altre agenzie federali, superamento dei freni imposti dall’amministrazione Obama alla costruzione degli oleodotti XL Keystone pipeline e Acces pipeline. Nomina della campionessa della scuola privata Betsy De Vos a Segretario all’Educazione.

Poi c’è l’agenda proposta. Su tre delle grandi promesse economiche, Trump si trova ad avere, in teoria, un ostacolo parziale nella maggioranza del suo partito in Congresso. La riforma fiscale e il contenimento del deficit sono tra gli argomenti preferiti dei Repubblicani in campagna elettorale, salvo poi arenarsi nelle secche delle commissioni e degli interessi lobbistici contrapposti. In alcuni casi, poi, i tagli e la semplificazione del sistema fiscale, accompagnati da un aumento della spesa (spesso militare) hanno caratterizzato alcune importanti presidenze repubblicane (Reagan e Bush jr.). Ma l’attuale speaker della Camera Paul Ryan ha un pedigree che si caratterizza soprattutto per il conservatorismo fiscale.

Il fatto che lui e altri come lui, cresciuti all’ombra del Tea Party, non critichino Trump o non gli chiedano conto di promesse che sono destinate, se implementate, ad aumentare il deficit federale, segna un passaggio di fase. Il partito Repubblicano, almeno fino al 2018, è il partito di Trump: meno liberista, contrario al commercio internazionale, isolazionista. A criticare Trump restano solo alcuni vecchi senatori moderati come McCain e Graham – e Marco Rubio, che scommette sull’insuccesso di Trump e guarda al 2020. Del resto, sebbene i sondaggi sul presidente siano molto negativi, in realtà l’elettorato di riferimento gradisce molto: criticare il presidente, per un Repubblicano, non è un buon modo per farsi rieleggere alle elezioni di mezzo termine.

Ma attenzione: un conto è garantire sostegno politico, un conto è concentrarsi sui particolari. Quando si troverà a dover proporre al Congresso leggi da approvare, Trump dovrà fare i conti con le spinte diverse dall’interno del partito. Facciamo l’esempio della sanità: alcuni governatori hanno rifiutato i fondi federali per ampliare il programma di assistenza Medicare, altri li hanno accettati. Rinnovare quel finanziamento o eliminarlo è una scelta che farà infuriare una parte o l’altra. E questa è solo una frazione degli ostacoli possibili.

Un terreno comune di lavoro potrebbe invece trovarsi sul programma annunciato da Steve Bannon: la «decostruzione» del sistema di regole federale. Abolizione della legge Dodd-Frank (la legge del 2010 che restituiva allo stato un controllo parziale sulla finanza) e della cosiddetta Volcker Rule che limita la possibilità di esposizione per le banche, cancellazione dei limiti imposti all’inquinamento, cancellazione dell’ordine di Obama che vietava l’utilizzo di carceri private per la detenzione di immigrati irregolari. E poi aumento delle spese militari. Nel complesso si tratta di misure che tendono a favorire quei settori industriali tradizionalmente amici dei repubblicani – il complesso militare industriale, i giganti degli idrocarburi, la finanza.

Ancora non è chiaro se a queste misure si accompagnerà il piano di investimenti nelle infrastrutture, che tradotto significa maggiore efficienza di un sistema che in effetti è antiquato e a tratti al collasso, ma anche creazione di tanti posti di lavoro e risultati tangibili da spendere quando si tratterà di tirare le somme della presidenza. Se ciò non accadrà, la promessa di Trump di occuparsi della middle class lavoratrice dimenticata dalla globalizzazione rimarrà tale.