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Tre tesi sulla politica estera americana da mettere in discussione

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Tre tesi di fondo, molto presenti nel dibattito internazionale, mettono in relazione la collocazione degli Stati Uniti nel mondo e gli eventi recenti in Medio Oriente – come anche, nell’anno e mezzo precedente, in Ucraina.

Il presidente americano Joe Biden

 

Una prima tesi è di tipo sistemico: si registra una grave perdita di controllo da parte degli Stati Uniti rispetto a vari conflitti regionali, e più ampiamente la crisi terminale del cosiddetto “ordine internazionale liberale”. Il conflitto violento in corso nel cuore del Medio Oriente ne sarebbe la conferma.

 

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La possibile obiezione a questa tesi è che è assai arduo identificare quando esattamente quello specifico “ordine” sia stato realmente vigente: il carattere “liberale” del sistema internazionale è stato soprattutto un’ambizione e un obiettivo, sebbene alcuni suoi elementi siano stati incardinati nelle alleanze a guida americana, nelle maggiori istituzioni a vocazione universalistica della famiglia ONU, e in un’organizzazione sui generis come la UE (e prima di essa le Comunità Europee). Va precisato, allora, che semmai esisteva un sistema di rapporti interstatuali e transnazionali di quel tipo in forma decisamente incompleta; dunque, un ordine incompiuto e su scala non globale.

Viene dato spesso per assodato che il periodo d’oro della Pax Americana coincida con la Guerra Fredda, ma per definizione quello fu un periodo di regole del gioco fortemente ed esplicitamente contestate, caratterizzato da crisi gravi (perfino a ridosso della soglia del conflitto nucleare) e frequenti. Lo stesso “momento unipolare”, in cui si presume che gli USA avessero una presa saldissima sul sistema internazionale, soffre di una strana sindrome poiché nessuno sa dire esattamente quanto sia durato. Dal dicembre 1991 (crollo dell’URSS) al settembre 2001? Fino alla crisi finanziaria del 2008? Si tratta comunque di una breve parentesi, e più probabilmente di un’ipotesi di lavoro che non si è mai realizzata, o forse di un’ambizione rimasta tale.

In estrema sintesi, se l’ordine internazionale liberale a guida USA è stato molto incompleto e/o di breve durata, è probabile che stiamo adottando un metro di paragone fuorviante nel valutare l’attuale assetto globale – sovrastimando, in particolare, il grado di perdita di influenza che gli USA stanno subendo.

Una seconda tesi di fondo, molto diffusa, postula che la politica estera americana abbia mancato negli ultimi anni di capacità di previsione e pianificazione, finendo per subire gli eventi e reagire in modo improvvisato. In altre parole, anche il declinante potere che gli USA avrebbero potuto esercitare sarebbe stato utilizzato poco e male. Le due prove a sostegno di questa tesi appaiono evidenti: l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022 non è stata prevenuta (nonostante il precedente del 2014), e l’attacco di Hamas a Israele ha colto anche Washington di sorpresa mostrando peraltro i limiti dell’influenza americana sul governo Netanyahu (sia prima che dopo il 7 ottobre).

Qui i dubbi sorgono rispetto a cosa si intenda per “previsione” – un problema non puramente filosofico ma assai concreto. I fallimenti degli apparati di intelligence sono certamente una questione serissima, e molto se ne è discusso ad esempio riguardo agli attentati sul suolo americano del settembre 2001. Ma ci si deve anche chiedere cosa effettivamente sia possibile per una superpotenza come gli USA perfino se si disponesse di previsioni accuratissime: quale forma di deterrenza o azione preventiva avrebbe impedito alla Russia di lanciare la seconda invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022?

A questo proposito è utile un piccolo approfondimento. La Federazione Russa è considerata, almeno dagli anni di Obama, una potenza sì revisionista e in grado di causare grave instabilità in molte aree anche non ad esse contigue, ma pur sempre una potenza economicamente e demograficamente declinante. Nel contesto di questo giudizio complessivo, Washington ha comunque esortato quasi costantemente gli alleati europei – a cominciare dalla Germania – a non stringere rapporti di interdipendenza strutturale con la Russia in campo energetico. Quanto alla funzione di deterrenza nei confronti di Mosca, furono proprio gli USA (sin dall’amministrazione di G.W. Bush) a insistere per un percorso di adesione alla NATO da offrire all’Ucraina (e alla Georgia). Non a caso, proprio questa posizione è stata duramente criticata da più parti come una possibile concausa della frustrazione russa negli anni seguenti.

Quel percorso avrebbe forse contribuito a dissuadere Vladimir Putin, soprattutto se avesse implicato una presenza cospicua di consiglieri o perfino forze operative della NATO sul territorio ucraino. E’ una classica ipotesi “controfattuale”, dunque indimostrabile; ma certo non si può imputare specificamente a Washington una carenza di calcolo strategico in tal senso, visto che almeno tre importanti alleati europei (Germania, Francia, Italia) posero allora vincoli e freni all’avvicinamento di Kyiv alla NATO.

Inoltre, almeno in chiave reattiva è difficile negare che Washington sia stata in grado di impostare una risposta collettiva importante (e, questa sì, largamente imprevista) all’aggressione russa del 2022.

Tornando ai quesiti sulle capacità previsionali e le azioni conseguenti: quale specifica azione (diplomatica, di consultazione riservata, di supporto militare) avrebbe evitato a Israele di subire il gravissimo danno in vite umane e prestigio del 7 ottobre 2023? Va qui ricordato che la stessa intelligence israeliana ha sottovalutato la minaccia di Hamas, e/o che il governo ha ignorato i suoi avvertimenti. In ogni caso, gli USA sembrano l’unico Paese ad aver avuto una qualche influenza sul processo decisionale a Tel Aviv nelle ore successive all’attacco di Hamas.

Semmai, l’accusa di una grave carenza di pianificazione operativa si può muovere al ritiro dall’Afghanistan nell’agosto 2021, che va considerato un errore tattico dell’amministrazione Biden ma probabilmente non un disastro strategico – visto anche che la stragrande maggioranza dei membri della coalizione internazionale avevano di fatto già lasciato il Paese se non per la presenza di piccoli contingenti militari e pochi diplomatici. Il prezzo di quell’errore è stato pagato direttamente dalla popolazione civile afghana che è nuovamente sotto il giogo di un regime oscurantista e violento. Anche in questo caso, comunque, si può concludere che la valutazione complessiva fatta da Washington non sia stata gravemente dannosa per gli interessi americani, nel senso che il fulcro della strategia USA è chiaramente altrove.

Riprendendo dunque la tesi più generale, non sembra corretto caratterizzare la politica estera di Biden come vittima di una serie di errori di interpretazione e di preparazione, soprattutto se si guarda al grande sforzo per riattivare e ampliare la rete di alleanze nell’Indopacifico (una scelta lungimirante avviata già da Obama) e per coltivare i rapporti transatlantici (rilanciati con la risposta collettiva della NATO alla crisi ucraina). Quanto al quadrante mediorientale, per ora le capacità diplomatiche e di deterrenza americane stanno tenendo sotto controllo gli attori più scontrosi e attivi: Iran (con Hezbollah), Arabia Saudita, Turchia. Tutto è in movimento e la situazione è altamente instabile, certo, ma Washington è di gran lunga il protagonista principale degli sforzi di contenimento dei danni regionali.

 

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Infine, una terza tesi di fondo assai diffusa sugli Stati Uniti sostiene che la polarizzazione drammatica del quadro politico interno renda marginale la politica estera per l’opinione pubblica e per la stessa classe politica americana, causando inevitabilmente scelte tardive, incoerenti e di corto respiro. Ora, è certamente vero che il tasso di polarizzazione interna è aumentato, in modo evidente dagli anni di Donald Trump – figura che, come è sempre più chiaro con il passare del tempo, ha avuto un impatto molto negativo e durevole prima sull’assetto del Partito Repubblicano e poi sull’intero clima politico e perfino sugli equilibri istituzionali del Paese. Eppure, il fatto che si combattano dure battaglie politiche ed elettorali alla luce del sole, come quella per la presidenza nel 2024, è un punto di forza della democrazia americana, non in sé un fattore di debolezza. D’altro canto, la politica estera in quanto tale è quasi sempre stata marginale rispetto alle scelte elettorali negli Stati Uniti, come praticamente in qualsiasi altro Paese democratico.

Il punto centrale è però che gli interessi economici – dunque interni e vitali – degli USA richiedono scelte di politica estera e coinvolgono comunque i rapporti internazionali. Una società aperta e dinamica come quella americana poggia su reti transnazionali per la propria prosperità, a dispetto della notevole taglia del mercato interno, della dimensione quasi continentale del Paese e dell’integrazione regionale realizzata prima con il NAFTA e oggi con il suo successore (USMCA). La combinazione di fattori interni/esterni e dei settori pubblico/privato è decisiva per l’economia americana perché fa leva sui suoi vantaggi comparati. Lo si vede in modo plastico nell’impatto dell’Inflation Reduction Act (IRA) varato nell’agosto 2022: questo piano di incentivi ha di fatto attratto aziende e investitori stranieri, invece (come temevano alcuni, soprattutto in Europa) di chiudere il mercato americano. E’ comunque una sfida competitiva per gli altri, ma non nel senso del classico mercantilismo.

Emerge così il pilastro concettuale che caratterizza quella che possiamo chiamare la “dottrina Biden”, articolata a più riprese soprattutto dall’Assistente alla Sicurezza Nazionale, Jake Sullivan (si veda ad esempio il recente articolo su Foreign Affairs). Questo approccio consiste nel collegare strettamente e in modo organico il versante interno e quello internazionale: si spiegano così gli investimenti nella base industriale e infrastrutturale che sostiene sia la vitalità dell’economia USA sia il cruciale settore della difesa, naturalmente con una forte enfasi sulle tecnologie più avanzate in quanto chiave di volta dell’innovazione e della competitività; e si spiega simultaneamente lo sforzo di preservare e adattare le alleanze e le partnership esterne. Ciò che conta, all’atto pratico, non è tanto quella che i teorici delle relazioni internazionali definiscono “egemonia” americana, quanto mantenere un ruolo di influenza e semmai di leadership, cioè una grande capacità di persuasione e pressione anche sugli alleati più problematici e sui partner più riottosi. Parallelamente, è indispensabile contenere, dissuadere, ingaggiare il maggiore sfidante sistemico di oggi, cioè la Repubblica Popolare Cinese (la cui traiettoria di crescita è oggi nettamente ridimensionata) – pur mantenendo aperti i canali di dialogo per gestire la persistente interdipendenza economica e i rischi di fraintendimenti sul piano militare. A giudicare dalle iniziative pratiche assunte da Biden e dalla sua squadra, è precisamente ciò che si sta facendo.

 

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Vi sono limiti a ciò che gli Stati Uniti possono ottenere nel breve termine, ma un passo nella giusta direzione per un’azione efficace almeno nel medio termine è avere una buona diagnosi: quella sintetizzata dall’Assistente alla Sicurezza Nazionale del Presidente Biden è “competition in an age of interdependence”. Ed è, appunto, una buona diagnosi.

In ultima analisi, se vista in questi termini la direzione complessiva della politica estera americana si presenta meno traballante e incerta di quanto molti osservatori la dipingono. Ciò non vuol dire che l’amministrazione Biden sia sempre in totale controllo degli eventi né che sia esente da errori. Vi sono sfide complicate per la maggiore superpotenza – che però resta tale e senza rivali, nonostante tutto.