Teheran-Riyad, Washington-Pechino – e le scelte americane
L’operazione diplomatica cinese che sembra aver favorito il riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita è certamente un segno dei tempi. Pechino accresce il suo peso internazionale, pur in una fase di rallentamento economico e di forte tensione con gli Stati Uniti, che di fatto si estende ai rapporti con tutti gli alleati asiatici ed europei di Washington. Non è affatto detto che la Repubblica Popolare voglia pagare l’enorme costo di un vero “decopuling” dalle economie occidentali (temuto anche dagli europei), poiché per primo Xi Jinping sa benissimo che un futuro prospero per il suo Paese richiede l’accesso regolare ai mercati globali e dunque non una specie di nuova Guerra fredda. Partendo da questo presupposto, si può meglio interpretare anche la più aperta competizione per l’influenza che osserviamo oggi in Medio Oriente.
Molti analisti hanno giustamente notato che l’attivismo cinese aumenta proprio mentre si conferma un certo disimpegno americano nella regione. Il quesito preliminare, però, è come mai e in che termini vi sia stato questo relativo disimpegno di Washington. E qui il quadro si fa più sfumato, con l‘esigenza di tornare indietro di qualche anno.
Almeno dall’arrivo alla Casa Bianca di Barack Obama, nel 2009, gli Stati Uniti hanno avviato un riassetto del proprio ruolo regionale: non va dimenticato che uno dei cardini del programma di Obama in politica estera era porre fine al costoso impegno militare americano in Iraq – la “guerra per scelta” lanciata da George W. Bush nel 2003, dopo quella afgana del 2002 giustificata dalla caccia a Osama bin Laden. Le Primavere arabe del 2011 hanno accelerato il cambio di rotta, soprattutto dopo l’esito ancor più autoritario del dopo-rivolte a distanza di pochi mesi (con la parziale e piccola eccezione della Tunisia). Nel caso che più direttamente interessava l’Europa e l’Italia, ovvero la Libia, il messaggio lanciato agli alleati del Vecchio Continente dopo le limitate operazioni militari contro le forze di Gheddafi era chiaro: la Libia era – e, come sappiamo, resta tuttora – un problema europeo.
Ciò che più conta in chiave strategica è che l’amministrazione Obama ha optato per un declassamento di tre canali diplomatici decisivi, in modo quasi parallelo: con l’Egitto, con l’Arabia Saudita, e perfino con Israele (seppure con intensità diversa). Tale scelta di fondo, forse poco notata in quegli anni, ha coinciso anche con il graduale ritiro militare dall’Iraq e con la decisione di non intervenire direttamente in Siria. A confermare la volontà di un cambio di paradigma, l’amministrazione americana si è impegnata intanto per raggiungere un complicato accordo multilaterale sulla questione nucleare iraniana – il JCPOA, siglato nel 2015, a fronte di durissime critiche soprattutto israeliane ma anche saudite. Per completezza di cronaca, lo stesso Presidente Obama auspicò pubblicamente proprio un riavvicinamento tra Riyad a Teheran sulla scia di quella difficile intesa.
E’ opportuno ripercorrere questi passaggi per meglio comprendere l’impatto negativo che ha avuto poi l’amministrazione Trump sulla regione, tra il 2017 e il 2020. Negativo nel senso che Donald Trump ha precipitosamente rinnegato l’accordo sul nucleare iraniano e ha spostato nuovamente l’asse dell’azione diplomatica americana su Arabia Saudita e Israele, con l’intento dichiarato di isolare del tutto l’Iran. Quell’accordo era però una delle poche leve che l’Occidente poteva utilizzare verso Teheran, in grado forse perfino di alterare progressivamente gli equilibri interni al Paese.
I tanto decantati Accordi di Abramo del 2020 – presunto successo diplomatico di Donald Trump – poggiavano su un errore di prospettiva fin dall’inizio, visto che nell’illusione di creare un fronte anti-iraniano davano carta bianca alle monarchie del Golfo in altri settori.
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E’ ora giunto il momento di pagare il conto di quella scelta poco saggia, che paradossalmente ha facilitato il rientro in gioco di un Iran più repressivo che mai, pienamente impegnato a perseguire il suo programma nucleare. Biden, dal canto suo, si è trovato di fronte a un dilemma, visto che un rapprochement israelo-saudita era difficile da respingere in via di principio. Ha finito così per ingoiare il grosso rospo della stretta di mano con il Principe bin Salman (dopo averlo aspramente criticato, politicamente e personalmente), senza ottenere nulla in termini di collaborazione saudita nel contenimento dei prezzi petroliferi. Intanto, in Israele una brusca svolta a destra (con incerte implicazioni per lo stesso sistema politico) è in fase di accelerazione. E’ davvero difficile per Washington ipotizzare una stretta cooperazione con due partner del genere – che di fatto sono temporaneamente lasciati al loro destino regionale.
Dunque, è in questo contesto mediorientale che si è ora inserita la diplomazia cinese. Un contesto in cui gli USA hanno scelto di ridurre una storica sovraesposizione, e in cui la natura dei regimi politici non può essere vista come un dato secondario o perfino irrilevante, in omaggio a una generica Realpolitik: al cuore della politica estera iraniana c’è proprio la visione propugnata dalla teocrazia di Teheran, e comunque nessun governo occidentale potrebbe ignorare quanto accade da mesi all’interno del Paese; intanto, l’Arabia Saudita rimane un regime unico nel suo genere, tollerato negli Stati Uniti e in Europa in virtù di una risorsa naturale la cui utilità economica è in via di graduale ma forte riduzione.
Sia chiaro: c’è sempre la possibilità di un’evoluzione politica e culturale per qualsiasi Stato, che tenga conto delle condizioni storiche e degli equilibri sociali. E’ accaduto altrove (soprattutto in Asia-Pacifico) e può accadere ancora in futuro. Tuttavia, al momento non è questa la direzione di marcia dei Paesi del Medio Oriente, praticamente senza eccezione. Quanto alla Realpolitik che pure era alla base dell’accordo nucleare del 2015, va detto che c’è realismo intelligente e realismo meno intelligente: rinnegare quell’intesa multilaterale, pur con tutti i suoi limiti, è stato comunque un errore imperdonabile.
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Coltivare rapporti diplomatici selettivi con partner scomodi o problematici sul piano interno è spesso un’esigenza per le democrazie liberali o quantomeno un interesse specifico (ciò vale ad esempio per l’Iran); ma non è prudente farsi illusioni su presunte amicizie fraterne con chi non rispetta la “rule of law” (ciò vale ad esempio per l’Arabia Saudita).
Come ha mostrato in modo drammatico l’invasione russa dell’Ucraina, le relazioni commerciali (in quel caso energetiche, come per l’Arabia Saudita) non sono affatto, di per sé, una garanzia di affidabilità strategica. Possiamo sperare che a Riyad, e negli altri Paesi arabi del Golfo, prevalga una visione più pragmatica degli interessi nazionali e regionali; ma non possiamo presupporre ottimisticamente che la “stabilità” sia un concetto davvero condiviso e soprattutto sufficiente.
Va ricordato che il vero punto di forza dei Paesi occidentali rispetto al modello cinese – caratterizzato dal Partito unico con leader unico – non è la capacità di rifornire di armi avanzate i governi del Medio Oriente (sebbene quello sia un asset non indifferente); è piuttosto l’accesso a mercati e flussi di investimenti che non dipendono dalle scelte del tutto arbitrarie di una leadership autoritaria. La capacità di attrazione del modello occidentale è quella che determina le scelte di destinazione per i figli delle elites di mezzo mondo che vogliano studiare, e ovviamente per periodi di vacanza e relax. Insomma, il soft power esiste ancora, e non è in mano a Pechino (né tantomeno a Riyad e Teheran). Quanto all’altro tipo di potere, quello “hard”, il futuro si gioca in luoghi tragici come l’Ucraina e pericolosi come lo Stretto di Taiwan.
Vedremo come la Cina gestirà i nuovi rapporti diplomatici ed economici con alcuni Paesi-chiave del Medio Oriente. L’esperienza storica suggerisce che gli sforzi di mediazione a qualsiasi livello richiedono un mix di due fattori: soft power (compresa una certa creatività) e credibilità militare ad ampio spettro (propria o quantomeno di una coalizione di cui si fa parte). Ad oggi non sembra francamente che Pechino possa eccellere in questi due settori. Costruire vere alleanze durature è poi tutta un’altra storia, perché si richiede una trasparenza politica e una capacità di “confidence building” che sono agli antipodi dell’attuale “modello cinese”.
Intanto, sappiamo che la Repubblica Popolare è in cerca di nuovi partner, ma solo dopo aver perso negli ultimi vent’anni la chance di costruire una solida rete di rapporti nell’Indopacifico, dove appare ormai quasi del tutto bloccata nelle sue velleità nazionalistiche. Anche a giudicare dalla difficile e oscillante gestione del rapporto bilaterale con la Russia, Pechino ha molto da imparare nel creare e coltivare coalizioni efficaci. E’ probabile allora che si presenteranno alcune opportunità per un ruolo diplomatico costruttivo sia per gli USA che per la UE, quando anche il Medio Oriente si troverà di fronte l’opzione di diventare davvero un cliente della Cina.