Somalia: dal “failed state” ad Al-Shabaab, e una rinascita oggi possibile
Non è semplice formulare un giudizio complessivo sulla situazione della Somalia. Molte cose sono mutate dal 2012, con la fine del governo federale transitorio e le elezioni che hanno portato alla nomina del nuovo governo e del parlamento federale. Molte erano anche le aspettative connesse al ruolo del nuovo Presidente Hassan Sheikh Mohamud – un outsider di formazione occidentale e capacità manageriali – e non poche sono oggi le critiche che invece lo investono, soprattutto sul versante della corruzione e della sicurezza.
Critiche che non sono state risparmiate nemmeno dalla comunità internazionale, che sulla Somalia e sulla sua stabilizzazione sembra in ogni caso aver definitivamente scommesso, ma che non sembra gradire l’altalenante andamento della ripresa e il persistere della violenza.
Per quanto frustrante possa essere per i somali e la comunità internazionale il lento cammino della ripresa somala, tuttavia, non può essere trascurato il contesto che rende tale processo così impegnativo. La Somalia non ha alcuna esperienza di governance democratica nella sua storia: è una società costruita sul ruolo dei clan e delle appartenenze familiari, con un passato di guerre e conflitti che affonda le sue radici nella notte dei tempi, un presente di instabilità e povertà e il non invidiabile primato di essere stato – e forse essere ancora – il paradigma mondiale del failed state.
Aspettarsi dalla Somalia una trasformazione rapida e indolore è quindi quantomeno ingenuo, soprattutto in assenza di una reale politica di sostegno finanziario di lungo periodo per le autorità politiche del Paese.
Governance e sicurezza, le due emergenze nazionali
Se è certamente vero che la sicurezza e la governance rappresentano oggi le due vere emergenze nazionali della Somalia, è altrettanto vero che la stabilità, la sicurezza stessa e le prospettive per una ripresa delle attività istituzionali sono enormemente migliorate rispetto a tre anni fa.
Nel 2012 la Somalia era ancora in larga misura in mano all’Al-Shabaab nel centro e nel sud, senza alcuna reale prospettiva di rinascita dello Stato centrale e di fatto in mano ai tanti centri di interesse che ruotano intorno all’economia parallela, a quella illecita e al business della violenza.
È stato così per oltre vent’anni, da quando cadde il pluri-ventennale regime di Siad Barre e il Paese piombò nella più totale anarchia, cessando di esistere come Stato. Gli oltre vent’anni di anarchia hanno creato una nuova élite locale, fatta di trafficanti, mercenari, warlord e poi jihadisti, che si sono contesi i resti di un Paese allo stremo, la cui economia è di fatto basata sulle rimesse dall’estero e sui commerci illeciti.
Chi ha tenuto in scacco la Somalia e i somali per così tanti anni, tuttavia, è stata anche una comunità internazionale, in parte disinteressata e in parte incapace di ristabilire le condizioni minime necessarie per la ripresa della normale vita istituzionale; il Paese è stato abbandonato a se stesso per un periodo prolungato e drammaticamente denso di eventi bellici.
In questo lasso di tempo, la generazione che aveva governato il Paese – e con essa la sua intellighenzia – è morta o è emigrata, lasciando spazio ad una nuova generazione del tutto differente, condannata a dividersi le ceneri di una già misera realtà.
È stato il clan a sostituire l’impianto istituzionale, con le sue logiche ancestrali ed arcaiche, che hanno quindi riportato la Somalia a quella realtà arretrata e violenta che per secoli ha dettato le linee della storia nazionale e dei suoi equilibri sociali.
Il clan ha sempre rappresentato l’elemento primario del sistema somalo, di fatto prevalendo su quello confessionale dell’Islam: i somali sono essenzialmente litigiosi ma tutto sommato non radicali musulmani sunniti. Il radicalismo islamico arriva invece in Somalia con il collasso dello Stato centrale, favorendo il ritorno di quei – pochi – islamisti riparati all’estero durante il regime militare e fortemente influenzati dalla Fratellanza Musulmana e del wahabismo saudita. Questo è il terreno su cui si svilupperà il governo delle Corti Islamiche nel 2006 e da cui sorgernno le forze dell’Al-Shabaab, accolte dapprincipio con entusiasmo dai somali perché capaci di cacciare le odiate e temute milizie dei warlord.
L’Al-Shabaab tradisce tuttavia ben presto le aspettative e la fiducia dei somali, diventando a sua volta una milizia spietata e in alcun modo funzionale all’interesse della popolazione o dello Stato, governando per alcuni anni buona parte del territorio ma perdendo ben presto il sostegno popolare e la legittimità.
E sarà quindi questo, infine, il fattore che spingerà la comunità internazionale ad intervenire nel 2012 con il sostegno di un contingente dell’Unione Africana – oltre a quelli internazionali con compiti addestrativi nei Paesi vicini e nella Somalia stessa – e con la rapida riconquista di buona parte del Paese.
Con la perdita di Mogadiscio prima, e di Kismayo poi, l’Al-Shabaab entra in una spirale di crisi che porterà le sue milizie a disgregarsi rapidamente, a causa dell’impossibilità di generare i flussi finanziari necessari all’approvvigionamento del proprio apparato.
Questa fase, coincidente con l’insediamento del nuovo governo federale e con l’avvio di quella rinascita istituzionale così a lungo auspicata, aveva lasciato sperare in un più deciso ruolo delle nuove istituzioni e della comunità internazionale, dando l’impressione finalmente che la Somalia potesse tornare ad essere una nazione solida e stabile.
Al contrario, sono venuti invece a mancare l’impegno sia della comunità internazionale – che ha contribuito al finanziamento della missione di peace enforcementdell’Unione Africana e di quelle anti-pirateria, ma che non ha investito alcuna somma nella ricostruzione economica del Paese – sia della comunità somala della diaspora. Questa, non essendo coinvolta nel programma di gestione politica della nazione, non vede di buon occhio i progressi e la stabilità, nell’intento di conservare le proprie rendite di posizione. Buona parte dei servizi pubblici somali sono infatti assicurati da società private gestite da somali della diaspora, che vedono nel consolidamento delle istituzioni centrali una concreta minaccia alla continuità del proprio business.
I flussi finanziari più ingenti sono quindi stati – come sempre – quelli destinati alla sicurezza (o all’insicurezza), generando un’economia parallela che ha consentito nelle sue larghe maglie il parziale riconsolidamento dell’Al-Shabaab, questa volta non più in veste di milizia islamista di governo del territorio, ma come organizzazione terrorista.
Ad alimentare la narrativa della minaccia jihadista ha tuttavia ampiamente contribuito il sistema istituzionale, che sulla sicurezza e la lotta all’Al-Shabaab vede concentrare la gran parte del sostegno dall’estero. Si è così cercato di trasformare – retoricamente – i resti di una milizia allo stremo nella nuova minaccia epocale della sicurezza regionale.
Il vero problema della Somalia è quindi tornato ad essere l’assenza di una reale capacità di governance, mancando non solo la capacità culturale ed istituzionale di esprimerla, ma anche e soprattutto la volontà. La corruzione, già endemica nel Paese da sempre, è tornata a rappresentare quell’economia parallela – costituita della sistematica spoliazione degli aiuti internazionali – che di fatto mantiene la Somalia nel limbo istituzionale e da oltre vent’anni ne impedisce il ritorno alla normalità.
Il governo di Hassan Sheik Mohamud ha ampiamente fallito il suo mandato, almeno ad oggi, mancando di conseguire l’obiettivo primario su cui aveva costruito la sua candidatura politica: il ritorno della Somalia alla normalità attraverso la ricostruzione di istituzioni credibili.
Quanto è reale la minaccia dell’Al-Shabaab?
Nonostante i continui attentati, la minaccia dell’Al-Shabaab è oggi considerevolmente ridimensionata rispetto al passato. Quella che un tempo fu una milizia in grado di gestire e governare – spietatamente – l’intera Somalia centro-meridionale, oggi non è altro che un insieme di piccole strutture perlopiù dedicate al saccheggio, al terrorismo e alla ricerca di spazi dove insediarsi e sviluppare flussi economici utili alla propria sopravvivenza.
Con la perdita di Mogadiscio e di Kismayo, la capacità dell’Al-Shabaab di sostenere economicamente il proprio esercito e la propria organizzazione politico-istituzionale è cessata, con il conseguente frazionamento del gruppo e la fuoriuscita di un gran numero di miliziani, molti dei quali peraltro confluiti nelle ricostituite forze armate nazionali.
Le carte geografiche che a più riprese sui media mostrano come la gran parte del territorio somalo centro-meridionale sia sotto il controllo del movimento jihadista, omettono di specificare non solo che in quel territorio non c’è nulla, ma anche che questa capacità è solo nominale.
I finanziamenti dell’Al-Shabaab provengono ancora in larga misura dall’estero, in parte da quelle organizzazioni wahabite interessate alla continuità d’azione delle milizie jihadiste, in parte da quel sistema della diaspora che sullo status quo vede prosperare i propri affari, e che quindi considera l’Al-Shabaab funzionale ai propri interessi di instabilità.
Paradossalmente, tuttavia, l’Al-Shabaab fa comodo anche alle istituzioni centrali, che sulla minaccia del jihadismo regionale costruiscono i propri bilanci. L’economia dell’instabilità ha quindi trasformato l’Al-Shabaab, più o meno consapevolmente, in una mera forza mercenaria al servizio di interessi ben più grandi e ben diversi rispetto a quelli del fondamentalismo islamico – e per molti versi delegittimandone i vertici.
La crisi dell’Al-Shabaab è stata anche accelerata dalla manifesta incapacità del suo ex temuto leader – Ahmed Abdi Godane, morto nel 2014 durante un raid aereo americano – di conquistare la fiducia della popolazione. Osama Bin Laden gli aveva più volte rinfacciato proprio questo negandogli la patente qaedista. Come emerso nei carteggi sequestrati nel covo di Abbotabad, Bin Laden criticava apertamente i metodi violenti dell’Al-Shabaab, ritenendoli contrari agli interessi di Al-Qaeda e nefasti in termini di generazione del consenso sociale. Fu quindi Al-Zawahiri ad accettare l’Al-Shabaab nella rete di Al-Qaeda, ma solo in funzione del timore del declino d’immagine dell’organizzazione, anche sotto la spinta del nascente gruppo dell’ISIS.
Oggi l’Al-Shabaab è quindi un’organizzazione criminale solo nominalmente di ispirazione jihadista, dedita al saccheggio e alla conduzione di attentati che – per quanto cruenti e spietati – non hanno più alcuna capacità di rappresentare né una minaccia alla sicurezza dello Stato somalo – al quale, come detto, sono paradossalmente funzionali – né a quella regionale.