Risorse e misteri di un’empatia planetaria
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 100 di Aspenia
In Giappone spopola Girolamo Panzetta, alias Giro San. Stando ai sondaggi, i giapponesi lo considerano l’italiano più famoso del mondo dopo Leonardo da Vinci. Cos’avrà mai fatto questo Panzetta da Villanova del Battista, provincia di Avellino, per meritare tanto? Cresciuto a Napoli, approdato in Giappone, ha esordito trent’anni fa quasi per caso in tv, come insegnante di lingua italiana nel programma pedagogico di varietà Itariagokaiwa, trasmesso sulla rete pubblica nipponica NHK. In quindici anni la sua trasmissione ha battuto ogni record di ascolto. Da allora, il novello Leonardo da Vinci miete successi nei campi più svariati, moda, giornalismo, sport, intrattenimento catodico, e naturalmente cibo e gastronomia con il loro stuolo di pubblicità. Alto, bruno, slanciato, si cimenta in vario modo interpretando il tipico italiano, sino a sfiorarne la caricatura, enfatizzando pregi e difetti del carattere nazionale, nell’intento nemmeno dichiarato di dispensare felicità.
GIRO SAN, IL FENOMENO ITALIANO CHE SPOPOLA IN GIAPPONE. Doppiatore, conduttore, attore, modello, imprenditore: nelle sue poliedriche incarnazioni, Panzetta è anche il fondatore di una delle riviste di moda più vendute in Giappone, oltre che un influencer anzitempo, un ristoratore di successo, proprietario di un locale famoso nel distretto Aobadai di Tokyo, e autore – se mai si dubitasse del suo talento per il marketing – di una ventina di libri. Il suo ultimo saggio, intitolato Gokuraku itariajin ni paro hoho (Il paradiso degli italiani), ha venduto due milioni di copie, che in un mercato del libro vorace come quello giapponese pare non siano nemmeno un record, puntando i riflettori sull’arte, la moda, la gastronomia e raccontando, in un modo piano, semplice e diretto, le italiche bellezze a un pubblico nipponico che sembra apprezzare vieppiù la natura allegra e solare degli italiani e le loro virtù sentimentali: simpatia, empatia, leggerezza, gusto della vita e amore del bello, e i piaceri genuini che ne conseguono.
Se i detrattori non mancano – su Facebook c’è persino un gruppo intitolato “Girolamo Panzetta non mi rappresenta” – gli ammiratori di Giro San crescono a dismisura. Si racconta che quando l’ambasciatore d’Italia voleva presentarlo al segretario del primo ministro Abe, si sentì rispondere: “Non ha bisogno di presentarmelo. Noi tutti conosciamo Giro San”. Questo guru dell’italica bellezza ed eleganza è convinto di un’elementare verità, che molti in Italia stentano a prendere sul serio ma che invece, varcate le frontiere, persino i turisti più distratti finiscono per constatare con soddisfazione. Giro San è convinto che i giapponesi vorrebbero essere italiani, avere la nostra allegria e spensieratezza. E probabilmente deve il suo successo a questa convinzione nient’affatto ingenua.
D’altra parte, basta scrollare il suo account Instagram per vedere come ogni suo singolo post esprima un senso pieno di appagamento, accompagnato dalla soddisfazione del provinciale che è riuscito a sfangarla, ad affermarsi con i suoi mezzi, diventando il prototipo dell’italiano di successo, alto, bello, simpatico, empatico, seduttore quanto basta ma gentile, che tutti i giapponesi vorrebbero essere, e forse non solo i giapponesi.
IL CAMPIONE DELL’ITALIANITÀ IN COREA. Un altro esempio del fascino italiano nel mondo, per restare in Asia, lo troviamo in Corea del Sud, dove il mito nazionale si declina nella moda, nel cibo e nel paesaggio. Qui però l’eroe del gusto italiano non è né un cuoco star televisivo né un coltivatore di prodotti biologici, né uno stilista o un architetto, o un ingegnere o un compositore. No. Più semplicemente è un trentacinquenne della provincia veneta profonda, nato e cresciuto a Mirano, liceo Majorana, laurea a Ca’ Foscari in lingue orientali, approdato in Corea per il lancio commerciale della Birra Peroni Nastro Azzurro e diventato anch’egli, casualmente, una celebrità.
Alberto Mondi è un bel trentenne bruno dai lineamenti marcati e dal sorriso sfacciato; alto 1,87, è sposato a una coreana che gli ha dato due bambini ed è dotato di modestia. “Sono diventato un po’ lo stereotipo dell’italiano in Corea”, dice di sé, ammettendo il colpo di fortuna. “Ci sono persone che studiano qui per realizzare i loro sogni, e invece io ci sono riuscito senza sforzo”. Quando lavorava per la Submiller vendeva birra nei locali quattro giorni alla settimana. Poi ha cambiato genere merceologico e azienda, passando alla Fiat Chrysler per vendere automobili. Un bel giorno un ex cliente lo chiama per dirgli che c’è un tizio che lo vuole conoscere. Ignaro, Alberto si presenta all’appuntamento in giacca e cravatta. “Che lavoro fa”?” domandano i produttori televisivi. “Vendo auto,” risponde lui, lasciando un biglietto da visita. “Se siete interessati fatemelo sapere”. Si ritrova così nel cast di Non Summit, un programma tv di intrattenimento seguito in tutto il mondo – comprese Cina, Taiwan, Russia, Turchia – in cui 12 rappresentanti di altrettanti paesi si confrontano sui loro diversi punti di vista. Racconta che la moglie coreana inizialmente era contraria ma finì per accettare perché si girava la domenica. Inizia così una carriera televisiva sul canale JTBC, il principale network coreano.
Dal niente, il veneto Mondi in Corea, come l’avellinese Panzetta in Giappone, diventa una celebrità e come l’altro si trasforma in una specie di Creso, che crea denaro da tutto ciò che tocca. S’inventa la pasta alla coreana, si accredita come l’ambasciatore della pizza alla coreana, firma contratti pubblicitari a iosa coi grandi marchi internazionali, gira uno spot dopo l’altro – Samsung, Sony, ma anche McDonald’s, Nescafé, Clinique – e macina centinaia di migliaia di follower sui social, postando foto della figlioletta Chiara che impara l’italiano e gioca col fratellino, sfiorando la violazione della privacy che in Corea è rispettatissima, e riscattando a modo suo l’immagine dell’italiano macho, grezzo conquistatore e sciupafemmine.
Il suo è un altro modo di veicolare l’empatia italiana attraverso i valori forti della famiglia, la naturalezza, la semplicità, l’amore per la vita genuina, promuovendo il gusto, lo stile e il modo di vivere all’italiana e di essere italiani. La formula ha un tale successo che in un paese che ama divertirsi come la Corea del Sud, dove si vive davanti alla tv e non si bada a spese per produrre nuovi format originali, subito si traduce in programmi di infotainment sull’Italia e sul paesaggio italiano, che il pubblico coreano apprezza grandemente soprattutto quando giovani coppie di fidanzati scoprono la Toscana grazie a un viaggio premio, o quando i reality sulla cucina mettono in scena blitz culinari in casa di amici e sconosciuti, che nottetempo si trasformano in banchetti per centinaia di condomini.
LE RAGIONI DELLA SIMPATIA PER L’ITALIA. È così che in Oriente dilaga il gusto per l’Italia e gli italiani, mentre in America negli ultimi trent’anni si è passati dallo stigma del povero emigrante meridionale, retrivo, analfabeta e affamato, alla consacrazione della moda italiana che esalta tratti indelebili come quelli per esempio dell’etnocentrismo siciliano, per imporne su scala planetaria il gusto, i sapori e i colori come cifra originale di produzioni di lusso estremo. E intanto, a Roma, lo scrittore anglopakistano Hanif Kureishi – l’autore indimenticabile di My Beautiful Laundrette, l’analista sopraffino di conflitti psicologici senza scampo, costretto all’immobilità in seguito a un grave incidente che l’ha privato dell’uso degli arti, rendendolo completamente dipendente dagli altri, ricoverato d’urgenza al Gemelli, dove ha subito un’operazione al midollo spinale, e poi in un centro specialistico di riabilitazione alla periferia di Roma – ha iniziato a tenere su Twitter uno strepitoso diario quotidiano della sua malattia, confessando subito di voler diventare italiano. Sì, proprio lui, che pur vivendo da anni con l’italiana Isabella d’Amico, non parla nemmeno una parola della lingua di Dante, conquistato dalla gentilezza, dal garbo, dalla simpatia, dall’umanità e dalla compassione di medici, infermieri, fisioterapisti e assistenti che ha conosciuto in questi mesi, ha deciso di volersi naturalizzare italiano.
E perciò si può dire che in tutto il mondo – veicolata dalla moda, da stilisti e da creatori di talento, oltreché dall’export impetuoso dell’agroalimentare, dalle prodezze del design e dalle macchine utensili, e da saperi solidi come l’ingegneria, l’architettura, la fisica e le scienze, ma resi accessibili da semplici avventurieri scafati come Panzetta e Mondi – dilaga la passione per l’italiano e per gli italiani, diffondendo il modo di vivere all’italiana, l’inventare, il pensare, il vestire, il mangiare, il sognare e il fare l’amore all’italiana.
Un’ondata di simpatia planetaria sembra, nonostante tutto, riversarsi sull’Italia e sugli italiani. Tant’è che quello che fino a qualche tempo fa era considerato un vulnus, una debolezza e un’inconfessabile inadeguatezza, foriera di sensi di colpa e complessi di inferiorità, sembra tradursi da qualche decennio nel suo perfetto contrario. Voglio dire che l’assenza del senso dello Stato, l’atavica debolezza delle istituzioni pubbliche, la carenza di una classe dirigente responsabile sul piano politico e la difficoltà di esprimere una rappresentanza adeguata degli interessi dei cittadini, per non parlare dell’illegalità diffusa e della criminalità organizzata, sembrano miracolosamente sfumare nell’immagine predominante dell’Italia e degli italiani di oggi, sino quasi a perdere rilevanza rispetto ad altri aspetti apparentemente più frivoli e invece cruciali.
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Forse nel mondo di oggi postmoderno e disarticolato, dominato dall’eccessiva dipendenza dal presente, dall’ultra contemporaneità, in balia h24 di un flusso di informazione continua e spesso inebetente, esposto ai sobbalzi di una crescita impetuosa talvolta imprevedibile, non solo si impongono gli animal spirits della nazione italiana, ma vengono fuori anche le risorse per molti ormai invisibili di una ininterrotta civiltà millenaria.
Se lo Stato è un fallimento, entra in gioco l’arte, che per Hegel nel caso dell’Italia rappresentava un succedaneo della debolezza politica e un’altra via da percorrere per realizzare la marcia della ragione e attingere allo spirito del tempo. Quando le istituzioni pubbliche difettano o stentano a rappresentare la nazione, quando la pecca finisce per diventare un merito e il difetto si trasforma in virtù, entrano in gioco gli elementi di base: nel nostro caso lo stile di vita, il gusto, l’amore del bello, l’eleganza, la disinvoltura, col loro strascico di anticonformismo anarchico e individualismo ribaldo, che esalta il non detto, il sottovalutato, l’inatteso, sino a diventare la cifra universale della percezione dell’italiano nel mondo, oltreché una chiave della coscienza e dell’autocoscienza nazionale.
LA DIMENSIONE UNICA: L’IDENTITÀ CULTURALE. Resta allora da interrogarsi sul mistero di questa prodigiosa inversione di tendenza. Fino a qualche anno fa l’italiano medio era abituato a lamentarsi del suo posto nel mondo, sembrava crogiolarsi in un complesso di inferiorità che lo teneva a distanza dai paesi cosiddetti civili. Oggi invece scopre di godere di un patrimonio universale di simpatia. Non credo infatti esistano al mondo figure analoghe a quelle di Mondi e Panzetta, in grado di riscuotere un gradimento diffuso in paesi lontani come il Giappone e la Corea del Sud, incarnando i tratti distintivi del carattere nazionale italiano. Non mi pare che esistano al mondo stereotipi altrettanto celebri, in termini di consensi e di empatia, incarnati da un Monsieur Durand o da un Herr Sachs. Non vorrei peccare di presunzione, ma non credo esista un altro paese prensile, duttile, multifocale e variegato come l’Italia, in grado di assorbire i colpi bassi, ammortizzarli e trasformarli in stimolo, giocando simultaneamente su diversi piani di fascinazione.
È possibile che questa singolarità abbia a che fare con la dimensione assolutamente unica che contraddistingue l’identità italiana. Il fatto cioè che noi viviamo in un territorio geografico proteso sul Mar Mediterraneo che sin dagli albori dei tempi è stato un teatro ininterrotto di civiltà. Di questo non possiamo non tenere conto, anche se ci ostiniamo a non esserne consapevoli, o a esserlo solo in parte, sbadatamente, ingenuamente.
Difficile negare che noi italiani viviamo in una dimensione segnata dalla presenza dell’antico, dove le radici classiche si confondono di continuo da almeno due millenni con il cosiddetto moderno, il mos hodiernus, e cioè il presente, il contemporaneo, l’ultracontemporaneo. Se è vero che alla nostra identità nazionale manca o è mancata nei secoli recenti una dimensione politica forte, oggi questa dimensione risulta essere compensata da una dimensione culturale fortissima, che spiega la peculiarità dell’immagine degli italiani nel mondo d’oggi. È per questo motivo che la promozione della cultura italiana all’estero e del cosiddetto sistema paese oggi non riguarda più solo gli scrittori, gli artisti, i musicisti, gli studiosi di letteratura, ma si dilata a tutti i campi del sapere e alle più varie esperienze: architettura, ingegneria, design, scienza pura, scienza applicata, industria, artigianato, gastronomia, agricoltura, biodiversità, paesaggio.
Questo perché la cultura è per noi italiani una dimensione stratificata nel tempo che ha abituato l’occhio, la mano, il braccio, la gamba, il cervello umano a condividere le forme ereditate dal passato, a tradurre e ritradurre continuamente la bellezza depositata dalla storia, per trasformarle e rielaborarle in qualcosa di nuovo e fornire risposte inattese e spesso inedite ai problemi del presente.
È questo un dato chiave per cercare di definire oggi l’identità italiana e soprattutto per capire il patrimonio di simpatia che l’italiano nel mondo è in grado di suscitare a ogni latitudine.
Non solo un sistema di valori condiviso, non solo la lingua (che, sia detto per inciso, molti di noi parlano senza amarla, senza nemmeno conoscerla, bistrattandola con anglicismi privi di senso, infarcendola in modo inutilmente intimidatorio di termini stranieri, mentre nel mondo la si studia per diletto e per mera passione, cantando le romanze dell’opera, imparando a memoria i libretti di Boito e Piave, ripetendo i ritornelli delle canzoni di Eros Ramazzotti), ma un modo di esperire la realtà, che si declina in infinite variazioni e resta peculiare a chi vive in questo minuscolo lembo di terra proteso in una penisola a forma di stivale nel Mediterraneo.
Penso in particolare alla produzione di macchine utensili, settore in cui l’Italia mantiene l’eccellenza e un primato importante in termini di esportazione; penso ai sofisticati macchinari industriali, ma anche all’intelligenza artificiale col recente proliferare di applicazioni destinate per esempio ai servizi in campo medico e sanitario. Sono i riflessi di un modo di fare e di pensare peculiare a noi italiani, in cui l’eredità del passato riesce a combinarsi armoniosamente con la tecnologia per produrre innovazione, ricerca, sperimentazione. Del resto, a pensarci bene è proprio questa dimensione espansa dell’identità culturale, svincolata dal dato politico e statuale, una dimensione che tocca tutti i saperi e le arti, incidendo inconsciamente nel modo di fare dei più svariati soggetti, a essere l’elemento chiave del crescente interesse internazionale nei confronti dell’Italia, del gusto e dello stile di vita all’italiana. In altri termini, è una dimensione che investe il nostro modo di stare al mondo, l’intelligenza con cui guardiamo alla realtà, il dinamismo che riusciamo a esprimere anche in situazioni di difficoltà.
Ed è questo a spiegare anche il forte desiderio che manifestano oggi gli italiani di essere considerati e valorizzati per quello che sono, e non per quello che dovrebbero essere: che in fondo, per tornare al punto da cui siamo partiti e chiudere il cerchio, è alla radice del successo globale di tipi come Panzetta e Mondi.
UN PATRIMONIO DA TUTELARE CONTRO LA CULTURA DELLA CANCELLAZIONE. Attenzione però. Nulla di vanaglorioso in queste mie considerazioni. Anzi, un grido di allarme perché noi oggi assistiamo a un’erosione continua del nostro retaggio culturale, il che a volte può implicare persino una sorta di afasia delle classi dirigenti rispetto alle esigenze popolari.
Per superare la discrasia tra le decisioni politiche e i bisogni dei cittadini, urge dunque compiere uno sforzo di umiltà per ritornare alla realtà, per ritrovare un linguaggio comune e un comun denominatore. Per esempio, dovrebbe essere chiaro a tutti che se cancelliamo la conoscenza della lingua italiana dall’orizzonte di formazione dei nostri figli non marciamo a passi sicuri verso un futuro radioso, ma andiamo a sbattere dritti contro un muro, amputandoci di quelle che sono le nostre risorse primarie.
Allo stesso modo, dovrebbe essere chiaro a tutti quanto sia per noi italiani pericoloso cavalcare, in nome del radicalismo democratico, del progresso sociale e di presunte scelte d’avanguardia, la moda della cancel culture. Adottare in Italia la cultura della cancellazione significherebbe per noi chiudere bottega, rendere le nostre città inintelligibili, muto il nostro paesaggio e il contesto archeologico, premiando il silenzio del moralismo sulla voce del passato che è la nostra risorsa prima. Ma non si tratta di un vezzo tardo romantico dell’amore per le rovine. Cancellate la cultura e addio turismo, addio punti di pil, addio peculiarità italiana.
Non è un problema da poco. Oggi, in ossequio all’eguaglianza di genere, alcune università anglosassoni e americane aboliscono i corsi su Omero e sui classici greci come Esiodo, Eschilo, Sofocle, per non parlare di Shakespeare e del teatro elisabettiano… Di questo passo, arriveranno anche a Dante, Machiavelli e alla Mandragola, perché i valori dei classici greci, dei tragediografi del V secolo avanti Cristo o degli autori del Medioevo e del Rinascimento non sono gli stessi dell’uomo contemporaneo.
La mia generazione aveva appena dimenticato le devastazioni mentali prodotti dall’ideologia del totalitarismo – quando in Unione Sovietica, nella Germania nazista e nell’Italia fascista si faceva scempio della verità, con la neolingua orwelliana, in nome di un’idea superiore di giustizia del popolo, di purezza della razza, di autarchia della nazione. Ebbene, oggi noi assistiamo a una nuova deriva nichilista all’insegna di una sorta di neototalitarismo democratico. Dovremmo stare attenti, essere più accorti e meno indulgenti alla moda. Si rischia di vietare di studiare l’Orestea di Eschilo perché Apollo – il difensore di Oreste, accusato di avere ucciso la madre Clitennestra per vendicare la morte del padre Agamennone – a un certo punto sostiene che uccidere la madre è meno grave che uccidere il padre “perché il padre trasmette la vita, mentre la madre non fa che contenerla”. E siccome oggi la mamma vale quanto il papà, e addirittura esiste il genitore A e il genitore B, in virtù del diritto alla genitorialità e dell’eguaglianza di genere e della tutela dei diritti degli omosessuali, rischiamo di non poter più mettere in scena l’Orestea e i drammi antichi del teatro greco e romano, perché violano i nostri standard democratici e i nostri valori egalitari.
Questo però significa non solo depauperare le nostre stesse radici, ma sancire per volontà di una minoranza rivoluzionaria l’incapacità di comprendere il progresso della storia che ha portato all’emancipazione umana attraverso la cultura moderna. Se del passato dovessimo cancellare tutto ciò che non è in linea con i valori di oggi – anziché conoscerlo, studiarlo e rispettarlo proprio in quanto diverso, altro da noi e persino anacronistico, anziché riflettere e comprendere perché noi moderni, pur avendo perso la ferocia e l’animo primitivo degli antichi greci, pur perseguendo obiettivi diversi da quelli dei cittadini della polis del v secolo a.c., continuiamo a vibrare delle loro verità – finiremmo per scivolare in una forma pericolosa di negazionismo.
Oltre a farci del male da soli, rischieremmo di aprire la strada a un’involuzione nefasta, a un’altra forma ancora più subdola di totalitarismo, in cui la gabbia mentale imposta ai molti nuoce alla libertà di tutti con grave danno per ciascuno di noi. Meglio dunque coltivare la leggerezza e l’autoironia dello stereotipo dell’italiano che impazza in Estremo Oriente, meglio cercare di chiarire a noi stessi le ragioni di un’empatia planetaria verso l’Italia e gli italiani, che senza le radici classiche e l’impronta imperitura dell’antico resterebbero un mistero, nell’uniforme mondo standardizzato della globalizzazione dei mercati.