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Religione e politica nel voto israeliano di settembre

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Le elezioni legislative in Israele hanno visto un’affermazione di stretta misura del partito centrista “Blu e bianco” di Benny Gantz sul Likud di Benyamin Netanyahu (32 seggi contro 31), e l’inedita affermazione della Lista Unita araba come terza forza della Knesset, il parlamento israeliano, con 12 parlamentari.

Come in passato, anche in questa tornata (si è votato il 17 settembre) il fattore religioso – strettamente connesso con i dibattiti sull’identità nazionale, sui confini e sulla sicurezza – ha giocato un ruolo di primo piano, che ha coinvolto la stessa decisione di convocare nuove elezioni (a soli cinque mesi dalle precedenti). Infatti, i negoziati per formare un governo tra il Likud di Netanyahu e gli altri partiti della destra si erano incagliati sulla questione della rimozione delle esenzioni dal servizio militare per gli studenti dei seminari religiosi ultra-ortodossi (yeshiva). Questa esenzione venne decisa al tempo della formazione dello stato di Israele, e allora riguardava solo poche centinaia di religiosi ultraortodossi haredi. Oggi, tuttavia, il numero degli esenti per motivi religiosi si è ampliato fino a raggiungere le decine di migliaia: il che ha fatto levare molte voci di protesta, da destra e da sinistra, e persino dal campo dei religiosi nazionalisti. Questo anche perché la questione è divenuta il simbolo di un confronto più ampio, relativo all’identità stessa dello stato ebraico: tra una concezione nazionalistica ebraica tendenzialmente laica, ed una connotata in senso religioso.

Dopo le elezioni di aprile 2019, il partito di destra Yisrael Beitenu di Avigdor Lieberman – alleato imprescindibile del Likud – ha posto la rimozione dell’esenzione militare come condizione essenziale per la propria partecipazione all’esecutivo: una volontà che si scontrava con le posizioni dei partiti religiosi ultra-ortodossi Shas e Giudaismo Unito nella Torah, favorevoli al mantenimento della legge. Questa situazione, insieme agli scandali di corruzione che hanno coinvolto Netanyahu, ha quindi portato all’impossibilità di formare un governo e alla scelta – per la prima volta nella storia di Israele – di ritornare al voto dopo un nulla di fatto.

La contrapposizione sulla religione all’interno della destra è poi proseguita durante la campagna elettorale, con Lieberman a chiedere una maggiore laicizzazione dell’esercito e di altre istituzioni: una posizione che mirava a conquistare anche i voti di alcuni laici moderati. Come reazione, negli ultimi giorni di campagna anche Gantz – da posizioni più centriste – ha accentuato l’impronta laica della sua campagna, prefigurando un governo laico di unità nazionale, che includa il Likud ma escluda i religiosi.

Al contrario, i partiti ultra-ortodossi – in particolare Shas – hanno costruito gran parte della propria campagna sulla denuncia del rischio che lo stato ebraico diventi “uno stato laico come tutti gli altri” in caso di formazione di un esecutivo senza i partiti religiosi, che potrebbe mettere in discussione non solo le norme sul servizio militare, ma anche la sacralità dello shabbat e il ruolo della religione ebraica nell’istruzione e nel diritto di famiglia. Di fronte a questa disputa sulla religione ormai divenuta tutta interna alla destra e agli ambienti moderati, i richiami alla laicità venuti anche dai partiti della sinistra, ormai fortemente minoritari nel paese, sono quasi passati inosservati.

Per quanto riguarda Netanyahu – il cui uso di simbologie religiose in chiave identitaria e di tematiche relative all’immigrazione ha recentemente spinto a fare molti raffronti con i leader populisti di destra in Europa – si è contraddistinto durante la campagna elettorale per un forte collegamento tra la questione dell’identità ebraica e quelle della sicurezza e dei territori occupati: sia con il discusso annuncio del progetto di annessione di buona parte della West Bank (che per molti elettori di destra avrebbe un significato religioso oltre che nazionalista); sia con una recente visita all’insediamento ebraico di Hebron, e in particolare alla Tomba dei Patriarchi (dove nel 1994 un estremista religioso ebraico uccise 29 arabi).

Guardando ai risultati elettorali, l’elezione ha mostrato un andamento stabile per i partiti di ispirazione religiosa – che ormai occupano stabilmente almeno un quinto della Knesset – che tuttavia non è sufficiente per formare con il Likud una maggioranza dalla connotazione religiosa.

Fra i partiti ultra-ortodossi, Shas – che rappresenta i religiosi sefarditi, di origine mediorientale – ha ottenuto 9 seggi, mentre “Giudaismo Unito nella Torah” – che rappresenta quelli ashkenaziti, originari dell’Europa centro-orientale ­– ne ha ottenuti 8.

Ebrei ultraortodossi piangono la morte del rabbino Ovadia Yosef, ultimo capo spirituale di Shas

 

Nel campo del sionismo religioso – ovvero dei religiosi nazionalisti – è sembrata continuare una tendenza già in atto da diversi anni verso l’integrazione con l’estrema destra nazionalista tout court (anche come conseguenza dell’innalzamento della soglia di sbarramento al 3,25% dei voti, che mette a rischio le liste singole non dotate di un ampio bacino di voti). Al contrario che in altre elezioni, l’estrema destra si è presentata unita in una sola lista, denominata Yamina (ovvero, appunto, ‘destra’), che ha raccolto tutte le fazioni di questo campo, dalla Nuova Destra di Ayelet Shaked (ex Ministra della Giustizia, che era anche la leader della coalizione), ai sionisti religiosi di “Casa Ebraica” e di Tkuma. Una scelta di unione – a fronte di una tradizione di frammentazione del campo della destra – che pare avere avuto un limitato successo, in quanto la lista ha conquistato 7 seggi, contro i 6 prima detenuti dai rappresentanti delle liste che la compongono.

Non ha invece superato la soglia di sbarramento Otzma Yehudit (‘potere ebraico’), un partito religioso di estrema destra che si ispira apertamente all’esperienza di rabbi Meir Kahane e del suo partito Kach: una formazione nota per le sue posizioni intolleranti e razziste che era stata dichiarata illegale dalla Corte Suprema israeliana negli anni ’90. Una presenza nelle liste elettorali che ha comunque suscitato proteste non solo in Israele, ma anche nella comunità ebraica americana.

Gli scenari per il dopo-voto, non essendo uscita dalle urne una chiara maggioranza, sono fluidi. Nel caso – oggi ritenuto improbabile da molti – che Netanyahu riesca a ricompattare i partiti che formavano la sua maggioranza – probabilmente attraverso sostanziose concessioni a Lieberman – e superare gli scandali, il governo di destra che ne risulterà potrebbe essere condizionato fortemente dal voto dei religiosi.

Al contrario, nel caso in cui si arrivi ad un esecutivo di unità nazionale – che potrebbe comprendere “Blu e bianco”, Likud e Yisrael Beytenu, ma anche parti della sinistra – si tratterebbe del governo più laico che Israele abbia avuto da diverse legislature. In questo caso, l’esecutivo potrebbe mettere mano a riforme che i laici attendono da decenni: non solo la fine dell’esenzione militare per gli ultra-ortodossi, ma anche la legalizzazione del matrimonio con rito civile. Se così fosse, il dibattito politico israeliano potrebbe spostarsi ulteriormente dall’asse destra/sinistra e le questioni di sicurezza (che lo hanno dominato negli ultimi decenni) alla linea di divisione tra laici e religiosi per la definizione dell’identità dello Stato.