international analysis and commentary

Raccontare l’Unione Europea tra élites e sfera pubblica

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Secondo Walter Cronkite, storico anchorman della CBS, “il giornalismo è ciò che serve per fare funzionare la democrazia”. Questa citazione, fatta la tara di una certa retorica tipicamente anglosassone, è un ottimo punto di partenza per analizzare un tipo di giornalismo sui generis, quello sull’Unione Europea, come strumento di narrazione di un sistema politico.

L’esistenza o meno di un giornalismo europeo non è questione di lana caprina: al contrario, si tratta di un aspetto fondamentale per capire lo stato di salute della comunità politica del nostro continente. E in effetti, il giornalismo sull’Unione Europea è un ottimo specchio dei limiti e dei cambiamenti non solo dei fatti che racconta, ma anche della struttura del sistema istituzionale. In altre parole, la questione è: esiste davvero, e può esistere, un giornalismo compiutamente europeo che assolva alla missione indicata da Cronkite?

La risposta a questa domanda parte da una constatazione comune: il giornalismo sugli affari europei è il più delle volte per sua natura complesso e noioso. In parte, sono proprio i temi che vengono raccontati a rendere difficile la loro elaborazione: come sostenuto da Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, l’Unione Europea è “un progetto fatto apposta per distruggere le notizie”. Un sistema istituzionale burocratico e tecnicizzato, orientato al consenso e a preferire le policies alla politics, finisce per evitare il conflitto e aumentare la complessità. Riducendo così la possibilità per la creazione di storie interessanti per un pubblico ampio. Con il risultato che le notizie ruotano attorno a elementi molto tecnici di legislazione e regolamentazione, per esperti.

Ciò fa nascere una prima dicotomia: spesso, c’è una profonda differenza tra cosa è interessante per le istituzioni e cosa è interessante per il pubblico. E i modelli di business del giornalismo spingono i giornali o a specializzarsi, o a rivolgersi a un pubblico più generalista. Chi vuole fare giornalismo europeo, deve scegliere.

Una seconda dimensione da analizzare è quella della domanda rivolta a tale giornalismo. Uno dei problemi da sempre più ripetuti nel dibattito sull’Unione Europea è quello della – discussa – mancanza di una vera e propria opinione pubblica di taglia continentale. In altre parole, mancherebbe una massa critica sufficientemente ampia con lingua e riferimenti culturali comuni, al di là di un’élite globale che parla – o quantomeno legge – inglese. La UE viene raccontata con lenti nazionali, secondo il principio “tutta la politica è locale”: le storie e le notizie riportate sono quelle riguardanti la politica o gli interessi locali. Manca il più delle volte un’ottica di risonanza europea, anche per argomenti che in realtà pienamente europei lo sono per costituzione o comunque in base ai trattati sottoscritti da tutti i paesi membri. Per esempio, la crisi greca. O, più vicina nel tempo e ancora più paradigmatica per la sua trattazione, quella dei migranti.

La conseguenza di una tale situazione porta a un panorama appunto dicotomico e delimitato. Da un lato, un giornalismo “di specialisti, per specialisti”, in lingua inglese, poco critico, rivolto principalmente a cittadini della Eurobubble (come viene chiamato il variegato mondo che ruota attorno alle istituzioni europee a Bruxelles) o, più in generale, anche fuori dalla bolla, destinato a interessare solo un’élite globalizzata; per il suo costo e difficoltà, poco accessibile al grande pubblico. Dall’altro lato, un dibattito orientato su un’offerta più grande di temi per un pubblico di lettori  mainstream, che però – salvo alcuni casi di visione più ampia, come il francese Jean Quatremerdi Libération – rimane ancorato a 28 prospettive nazionali diverse.

È paradigmatico il trattamento che è stato riservato all’Europa in Italia in questa vigilia elettorale: tra inviti a uscire o rinegoziare l’appartenenza all’Unione e il dibattito su potenziali futuri primi ministri provenienti da Bruxelles, la politica europea non appare altro, per parafrasare Von Clausewitz, che una “prosecuzione della politica interna con altri mezzi”.

Rappresentazione plastica di questo stato di cose è il panorama mediatico che gira attorno a Rond Point Schuman, la sede della Commissione Europea. I media e le agenzie propriamente “europei”, perlopiù in lingua inglese, non mancano: Euractiv, Euobserver, Agence Europe, sono outlet specializzati sulle policies e sulle istituzioni, però sono poco conosciuti al grande pubblico al di fuori della Eurobubble. Accanto a essi, i grandi media anglosassoni, come The Economist, Financial Times Politico.eu, che risultano regolarmente quelli più letti e influenti tra l’éliteeurofila dalla loro posizione al di fuori dell’Unione. Dall’altro lato, gli uffici di corrispondenza dei principali media nazionali, che traducono la politica europea in un’ottica nazionale, e che però hanno subito negli ultimi anni una forte riduzione degli organici.

In parte, questa dicotomia appare irrisolvibile. Infatti, se il giornalismo è specchio della realtà che racconta, le istituzioni europee, nel loro predominio della tecnica e della burocrazia e a causa del tanto declamato deficit democratico, rimangono in una certa misura refrattarie alle semplificazioni e alla narrazione: come dimostrano le già note difficoltà dell’Europa di “raccontare sé stessa”, per citare il giornalista italiano Severgnini c’è un limite istituzionale a quanto l’Europa possa essere sexy. Soprattutto, un limite piuttosto forte che ha appiattito il dibattito è stato il sostanziale consenso sul modello europeo presente nel giornalismo europeo: in linea di massima, negli anni passati chi scriveva di Europa tendeva a essere filo-europeo.

Eppure, ciò non implica per forza che non si possa fare giornalismo sull’Europa, o che il giornalismo europeo sia in declino. Tutt’altro: le recenti evoluzioni politiche, tecnologiche e del panorama dei media hanno creato un momento propizio per il giornalismo da e su Bruxelles.  In primo luogo, le crisi recenti, per quanto affrontate sotto l’ottica nazionale, hanno portato i temi europei al centro del dibattito politico in modi inediti. A loro volta, nuovi modelli di business e l’aumento del traffico online ha permesso a nuovi media di imporsi e a vecchi media di rinnovarsi, aumentando le voci critiche e le potenzialità di dibattito sull’UE. Un caso di scuola a tal riguardo è Politico.eu:importando dagli Stati Uniti un giornalismo più aggressivo e quasi di infotainment, insieme a un modello di business basato sui contenuti a pagamento, è riuscito a imporsi nel popolato panorama della Eurobubble come un punto di riferimento in poco più di due anni. Infine, l’atteggiamento dichiaratamente più politico della Commissione Juncker e la capacità comunicativa di alcuni dei suoi rappresentanti – fra tutti, la danese Margrethe Vestager, commissaria alla Concorrenza – hanno contribuito a ridurre la distanza tra istituzioni europee e opinione pubblica. Facilitando così anche il lavoro dei giornalisti.

Tali cambiamenti sembrano poter preludere a un nuovo modo del giornalismo di rapportarsi all’Unione Europea. Più media in competizione fra loro, una pluralità di idee che vengono condivise in maniera più rapida grazie ai social media, e istituzioni europee più attente alla loro abilità comunicativa, sono sicuramente uno sviluppo positivo nell’ottica di un giornalismo “maturo”. Non sono però sufficienti a uscire dalla dicotomia di fondo e a creare un compiuto spazio pubblico europeo, che coinvolga tutti i cittadini – potenzialmente – nello stesso modo. A oggi, come sostiene Olivier Basnier, professore di Affari Europei a Tolosa, “la UE ha ancora un’opinione pubblica da 18° secolo, quella di una cerchia illuminata e informatissima, ma ridotta, di autori”.

Perché ciò cambi, sono necessari molti elementi, culturali e di prospettiva, di cui il giornalismo è solo una minima parte. Tra le mani dei giornalisti che parlano di Europa passa però la possibilità di favorire questa trasformazione; magari smettendo di pensare alla difficoltà di creare una sfera pubblica europea e cominciando a comportarsi come se essa già esistesse. Facendo proprie le parole di Brigitte Alfter, direttrice di journalimsfund.eu: “la sfera pubblica europea non è una cosa, è piuttosto una stato d’animo. Così, comincia nel momento in cui decido di andare al di là del mio naso.”