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Quelli che hanno fatto vincere Obama

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Donne, giovani, afroamericani: tre gruppi di cittadini ed elettori in genere ai margini della vita politica ne sono stati questa volta protagonisti, facendosi portatori di cambiamenti che confermano il ruolo degli Stati Uniti come laboratorio di innovazioni politiche. Nella stessa stagione che vede l’Europa interrogarsi sulla mancanza di rappresentatività delle proprie istituzioni e sulla carenza di leadership, la risposta che arriva dagli Stati Uniti è di tipo diverso: coinvolgere nella vita pubblica chi ne resta lontano rigenera la democrazia.

Unire invece che dividere
Tutto inizia il 10 febbraio a Springfield, Illinois, quando Barack Obama – parlando con la Statehouse sullo sfondo – annuncia la corsa per la Casa Bianca con un discorso in cui si appella a “democratici, indipendenti e anche repubblicani” richiamandosi all’esempio di Abraham Lincoln, che sentì il bisogno di “unire una casa divisa”.

L’identità di Obama rafforza il messaggio di andare “oltre gli steccati”: nero ma non afroamericano, figlio di immigrati, con una madre bianca del Kansas e una moglie che viene dai quartieri più poveri di Chicago, cresciuto nelle Hawaii, e in Indonesia, ed educato alle università di Harvard e Columbia, Obama riassume più tasselli del mosaico umano americano, consentendo a Michael Walzer, sociologo dell’università di Princeton, di assegnargli la definizione di “leader politico postmoderno” perché al di fuori degli schemi che hanno segnato la vita pubblica nel Novecento.

A sostenere e spiegare questo fenomeno di massa è anche la scelta di David Plouffe, quarantenne manager della campagna di Obama, di puntare sul social networking per raccogliere denaro. Se quattro anni fa era stato Howard Dean a inaugurare l’uso di Internet per sostenere una campagna, ora Plouffe trasforma quell’intuizione in una rete che supera il milione e mezzo di users, ognuno dei quali dona cifre minime – anche 2 soli dollari – che sommate consentono però di battere tutti i record esistenti, riscrivendo le regole del finanziamento e consentendo a Obama di rinunciare ai fondi pubblici. A pesare in modo decisivo non sono più gruppi di poche centinaia di superricchi residenti nelle grandi città, ma un popolo di volontari, capace ogni giorno di versare pochi dollari, disseminato da una costa all’altra. È il successo del social networking che consente a Obama di modellare la campagna sulla “sfida dei 50 stati” non lasciandone nessuno a priori al campo avversario, come invece hanno fatto gli ultimi candidati democratici alla presidenza.

Nero ma non solo
Se Obama cambia gli equilibri di forza nel campo democratico grazie ai giovani, il risultato della nomination presidenziale assegnatagli dalla convention di Denver è che, per la prima volta, un afroamericano viene scelto da un partito come candidato alla Casa Bianca. Gli afroamericani, al pari dei giovani, nelle elezioni presidenziali dell’ultimo mezzo secolo hanno spesso disertato in massa le urne; ma questa volta il candidato Barack li trascina a superare quel vittimismo, frutto della memoria della schiavitù e del risentimento per la segregazione, che frena la loro partecipazione alla vita pubblica.

Obama mette a nudo le ferite dei neri d’America perché punta a liberarli dalla morsa del vittimismo che li auto-isola: li sollecita a smetterla di piangere sul passato della segregazione per giustificare il degrado sociale e morale, e a emanciparsi dalle difficoltà cogliendo le opportunità che l’America offre. Non a caso, ogni volta che si trova a parlare dei “problemi ereditati dalla schiavitù”, Obama usa un linguaggio nuovo; dice che sono “questioni inerenti al passato”, che hanno “causato un freno all’educazione”, ma punta a risolverle guardando al futuro: “Tutti i cittadini americani devono avere diritto alla migliore istruzione per i propri figli”.

L’approccio duro ai problemi sociali degli afroamericani gli procura il dissenso di leader neri come Jesse Jackson e Al Sharpton, ma Obama guarda oltre la generazione dei politici neri che si definivano solo in base alla protesta contro i bianchi per i diritti non concessi. Come riassume David Brooks sul New York Times, la novità di Obama sta nel fatto che “l’essere afroamericano fa parte della sua identità ma non lo definisce interamente”, proprio come fu per il cattolicesimo nel caso di John F. Kennedy. È questa caratteristica che rende Barack il modello di una “nuova generazione di leader neri”, come scrive Matt Bai sul New York Times Magazine.

Si distinguono non per il colore della pelle ma per le idee che hanno in mente: si tratta di Deval Patrick, governatore del Massachusetts, Harold Ford, volto di punta dei democratici in Tennessee, Cory Brooker, sindaco di Newark nemico giurato della criminalità organizzata, Adrian Fenty, primo cittadino di Washington. Ma anche di una miriade di alti funzionari, senatori e deputati dei singoli stati accomunati dalla convinzione che realizzare il sogno di Martin Luther King significhi fare politica non in nome del colore della pelle ma per il common good, il bene di tutti.