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Putin, Stalingrado e l’irrisolta “questione russa”

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A inizio febbraio Putin si è recato a Stalingrado per celebrare la storica vittoria dell’Armata Rossa contro la Wehrmacht che segnò, nel 1943, una svolta decisiva non solo nella “grande guerra patriottica”, ma più in generale della Seconda guerra mondiale. Era evidente la volontà di stabilire un parallelo con l’attuale guerra in Ucraina, che ha anche suscitato interrogativi sulla possibilità di un’imminente nuova offensiva russa. Sapremo nelle prossime settimane quanto questa ipotesi sia fondata. Per il momento, ci interessa valutare il parallelo da un altro punto di vista.

Se paragonare la resistenza ucraina all’aggressione nazista è concepibile solo per una mente malata, la vicenda ci ispira un altro interessante parallelo. Riguarda la Russia di Putin e la Germania – il Paese che nel mezzo secolo precedente alla fine della Seconda guerra mondiale fu preda di un nazionalismo che trascinò il mondo in due guerre mondiali, per poi terminare in un tragico suicidio. I punti di contatto sono impressionanti. Hanno in comune la stessa sindrome della sacra unità nazionale minacciata dall’accerchiamento di potenze ostili e la stessa missione di unificare e proteggere, ieri i tedeschi, oggi i russi sparsi oltre i propri confini. Una missione, un Sonderweg, un Russkiy mir, nutriti in un caso dal mito della superiorità della razza ariana, dall’altro dalla missione civilizzatrice della Russia ortodossa, unica depositaria della purezza dei valori europei di fronte a un Occidente decadente e scristianizzato. La stessa “terza Roma” che nella mitologia russa aveva impedito che l’Europa fosse travolta dalle orde dei mongoli. Una mitologia dove i russofoni del Donbass hanno la stessa funzione dei tedeschi dei Sudeti e che conduce alla negazione dell’esistenza dell’Ucraina in quanto nazione. A conferma del fatto che la storia può diventare uno strumento perverso di dominazione, un animale feroce da maneggiare con cautela.

Allegoria della nazione russa, trina perché composta dai Grandi Russi (russi etnici), Piccoli Russi (ucraini), Russi Bianchi (bielorussi), da un poster dell’inizio del Novecento

 

Se il parallelo fosse interamente valido, saremmo seriamente autorizzati a temere una terza guerra mondiale. Per fortuna non è necessariamente così. Non solo perché all’inizio del secolo scorso la Germania era già probabilmente la seconda potenza mondiale dopo gli Stati Uniti; lo era già sicuramente dal punto divista economico e industriale. La Russia di oggi è invece un Paese largamente arretrato, con un PIL pro capite inferiore alla metà di quello italiano e forte quasi esclusivamente per le sue riserve di idrocarburi e materie prime. Come sprezzantemente Helmut Schmidt definì a suo tempo l’URSS, “Il Gabon con l’arma atomica”.

Anni fa la New York Review of Books pubblicò un ampio dibattito fra eminenti storici per paragonare i crimini del nazismo a quelli dello stalinismo. In termini di morti causati, il verdetto fu un leggero “vantaggio” per Stalin. Tuttavia il dato più interessante, per esempio nel paragone fra i Gulag sovietici e i Lager nazisti, fu il contrasto fra l’efficienza di una macchina altamente sofisticata ma usata a fini immensamente criminali e un sistema altrettanto criminale, ma largamente corrotto e inefficiente. “Stalingrado”, il bellissimo romanzo di Vassilij Grossman del 1952, ci ispira lo stesso sentimento. Non è necessaria la propaganda occidentale, ma basta la sola retorica di Putin e dei suoi apologeti per cogliere la continuità assunta e rivendicata con lo stalinismo e la Russia degli Zar.

Nei due casi però il sistema, per quanto criminale, è riuscito a conservare a lungo un consenso popolare basato sul patriottismo nutrito dalla propaganda ufficiale. Un patriottismo che, anche senza sposare i disegni aggressivi del regime, accetta la tesi dell’accerchiamento da parte di un mondo ostile. Right or wrong, my country, la principale malattia del nazionalismo, condusse numerosi intellettuali e artisti tedeschi ad aderire alla mobilitazione per la Prima guerra mondiale e poi accettare anche se solo passivamente il nazismo. Oggi abbiamo il caso di intellettuali russi in passato critici con Putin che oggi accettano almeno la tesi della primaria responsabilità dell’Occidente nelle origini della crisi. È vero anche che nei due casi ci furono eroici esempi di resistenza; soprattutto, la reazione alla follia del regime ha condotto all’esodo di molte delle migliori energie scientifiche e intellettuali di entrambi i Paesi. Nel caso della Russia di oggi, decine di migliaia di quadri tecnici e scientifici che sarebbero indispensabili allo sviluppo dell’economia.

 

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L’enorme sproporzione di forze e di potenziale non ci conduce tuttavia da sola a escludere che la crisi attuale con la Russia possa condurre alla stessa tragedia. Il rischio non può essere escluso; se non altro perché la Russia di oggi è una potenza nucleare protetta, come impararono Napoleone e Hitler, dall’immensità del suo territorio che ne compensa in parte le debolezze intrinseche. La coscienza del rischio spiega certe cautele che l’Occidente ha adottato nel suo sostegno all’Ucraina. Cautele importanti, anche se vediamo concretamente che la frontiera fra la non co-belligeranza e il sostegno attivo è necessariamente mutevole.

A diminuire il timore di una nuova esplosione, contribuiscono però altri fattori. Il primo è che, dato l’attuale squilibrio fra la NATO e la Russia e il più generale equilibrio delle forze a livello mondiale, un nuovo conflitto planetario sarebbe concepibile solo la Cina decidesse di entrare in campo a fianco della Russia molto più apertamente di quanto stia facendo. In altri termini, la Cina dovrebbe seguire l’esempio della Germania guglielmina che decise di lascarsi guidare dalle debolezze del suo alleato minore, gli Asburgo, nel dare il via alla Prima guerra mondiale.

Nulla fa pensare che questo sia il caso. Perché Xi Jinping sembra comunque meno avventato di Guglielmo II, ma soprattutto perché le carte principali che la Cina vuole giocare sono in Asia e non in Europa. Alla luce degli avvenimenti, è molto difficile che la Cina possa ormai sperare di approfittare di una vittoria di Putin e di una sconfitta dell’Occidente. La risposta occidentale in Ucraina costituisce comunque anche un istruttivo segnale per la questione di Taiwan. Ci si può invece legittimamente domandare quale sia il grado di umiliazione di Putin che Xi potrebbe ritenere troppo contrario agli interessi cinesi.

Il secondo fattore di relativa rassicurazione è che l’Occidente ha unitariamente evitato la ripetizione del cedimento di Neville Chamberlain a Monaco nel 1938. Ciò nonostante le lunghe esitazioni e i dinieghi di una parte dell’Europa e anche degli USA di fronte all’evoluzione della politica di Putin e malgrado alcune sirene che evocavano le responsabilità della NATO e dell’Ucraina nell’origine della crisi. È bene non dimenticare che la sceneggiatura per “Monaco 2023” era già scritta e l’abbiamo evitata.

Tutto ciò rende particolarmente difficile rispondere alla domanda di quale possa essere l’approdo finale della crisi. Se ci si riferisce alle ostilità, la risposta è relativamente semplice: esso dipenderà dall’evoluzione sul terreno.

 

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L’idea di una pace duratura e di una nuova architettura di sicurezza europea invocate da alcuni è invece cosa molta diversa e tutto ci lascia pensare che il confronto con la Russia sarà di lunga durata. La storia di ogni nazione è guidata, spesso indipendentemente dal regime politico del momento, dalla visione che quel popolo ha di sé stesso e del proprio destino. Sono visioni che rispondono a pulsioni profonde, non immutabili ma durevoli. Da questo punto di vista, non esistono nazioni intrinsecamente virtuose e nemmeno nazioni predestinate al ruolo di paria. La storia recente, meno recente e attuale ci dicono che tutte le “missioni nazionali” possono essere fonti di pericolosi errori e di crimini. Ciò è sicuramente vero anche per l’Occidente. La differenza sta nella capacità di auto-correzione.

Da questo punto di vista, le democrazie liberali, pur con tutte le loro contraddizioni e fragilità, hanno dimostrato una capacità di auto-correzione molto superiore a quella delle autocrazie. Dipende anche dalla cultura che ispira la pretesa missione universale. Per la Francia, le sue radici sono nello spirito dei lumi e nella dichiarazione sui diritti dell’uomo del 1789. La “città sulla collina” di John Winthrop, che è l’icona dell’eccezionalismo americano, è in primo luogo un messaggio di libertà e di rigore morale. L’Europa ha a lungo praticato la schiavitù, ma la sua abolizione non è stata imposta dall’esterno; ha origine nel secolo dei lumi e nelle sette puritane protestanti cresciute a partire dal ‘700. Amazing grace, forse il più bell’inno della liturgia cristiana, è stato scritto da un mercante di schiavi pentito e diventato pastore anglicano. Tutto ciò non diminuisce certo l’orrore e le colpe della schiavitù, ma è un indice degli anticorpi di cui dispone la cultura europea e occidentale.

L’evoluzione dell’Occidente ci dice anche che il cambiamento della visione che un popolo ha di sé stesso non può essere imposto dall’esterno e a volte non dipende nemmeno da un cambio di governanti. Deve venire dall’interno. La Germania di un secolo fa non era predestinata. C’era quella di Fichte, di Herder, di Carl Schmitt, di Guglielmo II e poi di Hitler. C’era però anche quella di Kant, di Goethe, di Mann e di tanti altri; quando vogliono protestare contro qualcosa o qualcuno, dagli studenti tedeschi cantano da secoli Die Gedanken sind frei, “I pensieri sono liberi”.

Anche la Russia non è solo quella di Putin, di Dugin o di Surkov e nemmeno quella dei “Protocolli dei Savi di Sion”; è anche quella di Tolstoj e di tanti altri scrittori a musicisti che abbiamo amato e continuiamo ad amare. Poche cose possono uguagliare il piacere di ascoltare le composizioni per pianoforte di Rachmaninov suonate da Vladimir Horowitz; amici nella vita, il primo era russo, il secondo ucraino ed entrambi naturalizzati americani. Nulla ci dice che la fine delle ostilità potrà di per sé portare a una normalizzazione dei rapporti.

Come la “questione tedesca” non fu risolta nel novembre 1918, così non è affatto certo che un’eventuale tregua o persino la caduta di Putin risolvano la “questione russa”. Nessuna garanzia dell’Occidente potrà calmare il nazionalismo russo finché durerà la sindrome di accerchiamento e la missione del Russkiy mir. Il cambiamento può venire solo dai russi stessi. Nel caso della Germania ci sono volute due tragedie per arrivare al profondo e radicale esame di coscienza a cui abbiamo assistito. C’è da sperare che quello della Russia sarà meno doloroso.