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Prevedere per agire: l’economia come scienza sociale

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Il desiderio di sapere in anticipo cosa ci riserva il futuro è un impulso vecchio quanto il genere umano, nonostante la coscienza dell’impossibilità di formulare previsioni corrette. Tale coscienza si è affievolita soprattutto in seguito ai progressi delle scienze fisiche e naturali e della loro formalizzazione matematica (termodinamica, elettromagnetismo, gravità, ecc.).

Tuttavia, a complicare le previsioni relative a molti eventi naturali come la pioggia, gli uragani, i terremoti, esiste quello che si potrebbe definire un “difetto informativo”. È mpossibile conoscere con esattezza le condizioni di partenza e tutti gli eventuali fenomeni esterni che potrebbero influire sull’evento – questione sintetizzata dal cosiddetto “battito delle ali della farfalla” in grado di creare perturbazioni atmosferiche a migliaia di chilometri di distanza.

Nell’ambito delle scienze “dure”, laddove fosse possibile ovviare ai “difetti informativi”, le previsioni potrebbero teoricamente risultare corrette, in funzione di leggi note esprimibili in forma matematica. In realtà, anche in questo caso emergerebbero difficoltà legate alla misurazione dei fenomeni, sia ove si  ampliasse il lasso temporale della previsione  (in quanto entrerebbe in gioco il grado di approssimazione del calcolo) sia per le implicazioni del “principio di indeterminazione” di Heisenberg[1]. In queste caratteristiche di prevedibilità più o meno rigorosa risiede la differenza fondamentale tra le scienze sociali – che si occupano di individui dotati di facoltà di scelta – e quelle fisiche o naturali, dove ogni elemento (perfino le particelle subatomiche) si conforma alle leggi fisiche. Ne consegue che mentre per uno scienziato la missione della previsione è anticipare un fenomeno senza poterlo cambiare (ad esempio, non si cambia un uragano ma si evacua una zona prima del suo arrivo), per un economista (che fa un mestiere diverso da quello dello speculatore finanziario) l’obiettivo della previsione è cambiare l’oggetto stesso della previsione, ossia il sistema economico, l’azienda e così via.

Nelle scienze sociali di tipo economico che per definizione si occupano di leggi relative al comportamento umano, all’esistenza dei problemi relativi al “difetto informativo” (in questo caso l’impossibilità di conoscere i comportamenti di tutti gli agenti economici e le relazioni tra di essi), si aggiunge un problema ancora più radicale.

Ipotizzando, infatti, la possibilità di effettuare una previsione economica corretta, la formulazione stessa della previsione indurrà un cambiamento nel comportamento futuro degli agenti economici, a prescindere che essi siano razionali o meno, determinando la fallacia della previsione stessa. Questa problematica era già nota ai filosofi greci e raffigurata nel mito di Edipo. In definitiva, la possibilità di effettuare una previsione “perfetta” del comportamento umano (o di un sistema sociale o economico) è in contraddizione con il libero arbitrio dell’individuo e con la sua libertà di scegliere di agire diversamente dal comportamento “mainstream” o da quello storicamente prevalente. Ove i modelli economici segnalassero una previsione che si potesse ritenere affidabile, gli operatori economici sceglierebbero di cambiare le loro scelte future. Ad esempio, ove si prevedesse l’approssimarsi di una crisi, i policymaker adotterebbero politiche monetarie e/o di bilancio espansive atte ad evitare la crisi stessa. In questo modo la crisi non si verificherebbe, quantomeno non nei tempi e modi  attesi, e la previsione risulterebbe errata . Due implicazioni appaiono dunque ovvie: 1) Non possiamo sapere quante crisi economiche siano state evitate nel passato grazie a previsioni che hanno spinto all’adozione di politiche controcicliche. 2) Paradossalmente le analisi e previsioni in campo economico sono efficaci proprio quando si rivelano errate – se si rivelassero corrette avrebbero fallito la loro missione di influire sul comportamento futuro degli operatori e dei decisionmaker.

Rimane tuttavia la necessità per qualsiasi operatore economico di disegnare un quadro del futuro quanto più realistico possibile. La preparazione del bilancio o di un piano aziendale pluriennale, la decisione su un investimento sia esso industriale o finanziario o in risorse umane, la definizione di una politica economica sono tutti esempi di campi in cui anticipare il futuro è non solo essenziale ma inevitabile.

Tra le varie tipologie di modelli economici, quelli più utilizzati sono quelli econometrici, ossia quelli che utilizzano congiuntamente la teoria economica, l’analisi matematica e la statistica. Tra i modelli quantitativi, occorre poi distinguere modelli basati sull’estrapolazione di serie temporali e modelli strutturali che cercano di replicare il funzionamento del sistema economico. Essendo utilizzati anche a fini previsionali, questi modelli generano il malinteso sulla possibilità di effettuare previsioni corrette. In realtà il ruolo dei modelli econometrici (soprattutto di quelli strutturali) non è infatti di indicare un singolo esito in quanto tale ma è piuttosto di fornire al decisionmaker un quadro coerente del sistema economico, all’interno del quale formulare una diagnosi della situazione corrente, migliorandone la conoscenza delle opzioni di politica economica e del loro impatto quantitativo.

Rifacendosi all’ipotesi ergodica mutuata dalla meccanica statistica, la teoria economica individua relazioni tra i comportamenti “medi” di agenti economici “rappresentativi” per formulare e quantificare (con un certo grado di probabilità) strutture comportamentali sulla base delle quali orientare scelte di politica economica. La costruzione dei modelli econometrici strutturali multi-equazionali consente di individuare relazioni di causalità e interdipendenza, seppur indiretta, tra le variabili incluse nel modello. L’individuazione di tali relazioni è resa possibile dall’impiego dei metodi di aggregazione delle variabili; metodi che hanno permesso di rendere più facilmente interpretabile e controllabile il funzionamento dei modelli econometrici.  

Un limite spesso trascurato nell’utilizzo dei modelli è che essi sono basati su ipotesi molto forti sui comportamenti di mercati e operatori (esistenza di una situazione di equilibrio, mercati concorrenziali , trasparenza delle informazioni, ecc.) il cui grado di realismo spesso non viene valutato. Inoltre, non potendo contare su esperimenti ripetibili e verificabili, gli economisti sono tipicamente costretti a ricorrere all’utilizzo di osservazioni effettuate sul passato. Si adotta quindi una ipotesi molto cogente, ossia che il comportamento passato degli operatori sia indicativo del loro comportamento nel futuro[2].

Mentre questa ipotesi potrebbe essere ragionevole all’interno (o nei dintorni) del campo di variazione sia degli avvenimenti che delle correlazioni ed elasticità esplicitatesi nel passato, nulla si può dire nel caso di eventi in grado di stravolgere il comportamento e le reazioni degli operatori economici. Si può iscrivere a questa categoria di eventi al di fuori del campo di variazione storico un’ampia varietà di eventi.

Gli esempi più comuni sono una significativa variazione della regolamentazione di un mercato, l’introduzione di nuova tecnologia o il venir meno della sua spinta propulsiva (dal quale venir meno deriva oggi in gran parte la bassa crescita dei paesi “avanzati”[3]), un cambiamento radicale di alcuni parametri chiave che descrivono il comportamento degli operatori (ad esempio, la mancanza di fiducia nel sistema bancario innescatasi in seguito al fallimento Lehman, evento imprevedibile ma cruciale all’origine della crisi del 2008-09), e via elencando. Tuttavia, uno degli errori più comuni degli economisti quantitativi, soprattutto di quelli che vedono le formulazioni matematiche come totem intoccabili, è proprio di non verificare se un certo parametro o una certa ipotesi  siano validi in proiezione futura nello stesso modo in cui si sono verificati nel passato.

In sintesi, nel valutare la performance in chiave previsionale dei modelli economici occorre tener presente tre elementi chiave: l’impossibilità intrinseca di effettuare previsioni del comportamento umano, la verifica dell’aderenza delle ipotesi alla realtà, l’impossibilità di sapere quante crisi siano state evitate storicamente dall’utilizzo corretto di teoria e modelli.  


[1] Il principio di indeterminazione di Heisenberg ha confutato l’ipotesi che i fenomeni fisici siano calcolabili con esattezza, almeno nel mondo sub-atomico, stabilendo che non è possibile misurare simultaneamente posizione e moto di una particella. Ma rimane valida la considerazione che nessuna particella potrà sfuggire alla legge secondo la quale il suo moto e la sua posizione non sono misurabili e nessuna particella potrà “scegliere” di svelarcele contemporaneamente.

[2] Si veda la critica di Lucas in: Robert Lucas (1976),“Econometric Policy Evaluation: A Critique” in K.Brunner and A. Meltzer (eds.), Carnegie-Rochester, Conference Series on Public Policy, Volume 1, pages 19–46.

[3] Si vedano:
Robert Gordon, “Is US economic growth over?”, NBER Working Paper Series 18315, agosto 2012.
Emilio Rossi, Aspenia 74, “Il New Normal economico globale e le opzioni della politica”, Aspen Institute Italia, settembre/2016.