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Perché l’instabilità finanziaria globale mette a dura prova gli emergenti

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Nel corso del 2018 si è assistito ad un rafforzamento del dollaro, spinto dalla forza della ripresa americana e dalla politica meno accomodante della Federal Reserve. Come in altre occasioni in passato, i tassi USA in crescita hanno determinato una maggiore attrattività degli investimenti in dollari e una fuoriuscita di capitali soprattutto dai mercati emergenti (EM).

In realtà, negli ultimi mesi i mercati emergenti hanno dovuto affrontare una serie di shock esterni, in parte ma non solo legati all’apprezzamento della valuta americana: prezzi delle materie prime in calo, aumento dei tassi di interesse domestici, flessione della crescita degli scambi commerciali, brusca riduzione dei flussi di capitale ed effetti negativi sui bilanci derivanti dall’indebolimento delle valute. Nel complesso, questi shock appaiono di scala simile a quelli verificatisi durante il rallentamento degli EM nel 2014-15. A fronte di una congiuntura più debole già visibile in alcuni di questi paesi, i rischi al ribasso per le previsioni di crescita aggregata dell’area cosiddetta “emergente” appaiono significativi, anche se occorre tenere presente che la forte disomogeneità tra le strutture economiche delle varie realtà emergenti implica una variabilità significativa nel modo in cui i vari paesi vengono impattati da shock esterni.

Il fattore più rilevante per l’instabilità di molti degli EM è il rialzo dei tassi di interesse necessario per limitare la fuga di capitali verso aree finanziariamente più forti. In un contesto in cui numerosi paesi emergenti presentano tassi di interesse in aumento dalla scorsa primavera, l’entità complessiva dell’inasprimento monetario richiama quello del periodo 2014-15 ma con la stretta resa ancora più pesante dal sostanziale aumento dei costi di finanziamento in dollari. Il deflusso netto dei movimenti di portafoglio, pari all’1,6% del PIL dal primo trimestre 2018, è anch’esso simile al 2014-15, così come gli effetti negativi della debolezza delle valute sui bilanci delle aziende, valutabile in circa l’1% del PIL.

Allo stesso tempo, il commercio mondiale inizia a risentire dell’impatto negativo della guerra commerciale avviata dal Presidente Trump, con effetti negativi soprattutto nell’area del sud-Est asiatico, inclusa e in primis la Cina. Dopo una prima parte del 2018 caratterizzata da un tono alquanto positivo, alcuni “leading indicator” del commercio mondiale hanno iniziato a mostrare segni di debolezza crescente a partire dall’estate scorsa.  Viceversa, il calo dei prezzi delle materie prime appare meno grave del 2015, grazie alla solida congiuntura che si sta registrando in Cina, mentre i prezzi in recupero del petrolio hanno un impatto a macchia di leopardo, favorendo un sottoinsieme di EM ma danneggiandone altri (a seconda che siano esportatori o importatori). Diversi EM già mostrano segni di indebolimento dell’attività con effetti di stress finanziario chiaramente visibili in Argentina e Turchia.

Una buona parte dei paesi emergenti si trova a fronteggiare l’effetto combinato di tassi di interesse nazionali crescenti e di più alti costi di finanziamento in dollari. Per valutare la problematicità dell’effetto dei tassi di interesse (in moneta nazionale e in dollari) in aumento, Oxford Economics ha stimato un tasso di interesse medio per i paesi emergenti  come media ponderata dei tassi di interesse di ciascun paese  eusando come pesi il PIL. L’indicatore registra un incremento di 110 punti base (anno su anno) che sale a 180 punti base escludendo la Cina dal campione (grafico 1). Dal grafico si evince chiaramente la brusca impennata recente sia dei tassi domestici che del costo di finanziamento in dollari.

Grafico 1

 

Questi risultati sono influenzati dalle ampie escursioni registrate in Argentina e Turchia, ma ad ogni modo la metà dei paesi del campione ha fatto registrare tassi in salita sin da marzo 2018, sette dei quali oltre 75 punti base. Nel complesso, l’irrigidimento dei tassi interni è molto simile a quello visto nel 2014-15. Ma a differenza del 2014-15, anche i tassi d’interesse del dollaro sono aumentati – di circa 140 punti base (tassi fino a due anni) nell’ultimo anno. Tutto ciò rende più difficoltoso l’accesso al credito per imprese e famiglie e più oneroso il servizio del debito, sia pubblico che privato.

Gli emergenti sono complessivamente sotto pressione dal punto di vista finanziario anche per un brusco arresto degli afflussi netti di capitale. Nel terzo trimestre del 2018 si stima che i movimenti di portafoglio in entrata (sia per finanziare debito che per investimenti in equity) siano scesi vicino allo zero, rispetto ai circa 130 miliardi di dollari di gennaio. Lo “swing” negativo dei flussi di capitale negli ultimi sei mesi è equivalente all’1,5% del PIL, ancora una volta simile al 2014-15 (grafico 2).

Grafico 2

 

A complicare ulteriormente la situazione contribuisce anche il crollo delle valute di questi paesi che (per via dell’aumento dei costi all’import) comporta il rischio di produrre impatti negativi sui bilanci delle aziende. Una buona parte dei paesi emergenti presenta ingenti debiti in valuta estera (spesso non coperti) e di conseguenza il declino delle valute può costituirne un freno alla crescita. Le stime di Oxford Economics suggeriscono che tali effetti negativi sui bilanci aziendali potrebbero essere attualmente pari a circa l’1% del PIL dell’area EM – ancora una volta di dimensioni simili a quelle del 2014-15 (grafico 3).

Grafico 3

 

Anche l’andamento dei prezzi delle materie prime indica che la crescita dell’agglomerato disomogeneo EM è attualmente in rallentamento e lo sarà ancora per qualche tempo. I prezzi delle materie prime non petrolifere sono diminuiti circa il 10% da maggio, mentre i prezzi del petrolio sono rimasti elevati, intorno ai $70-75 per barile. Di conseguenza, gli esportatori di materie prime non petrolifere hanno visto calare le loro entrate mentre i paesi importatori di petrolio e con struttura produttiva basata sulla manifattura hanno visto ridursi la loro competitività a causa dei prezzi elevati del petrolio. Gli unici vincitori sono il sottoinsieme di paesi EM esportatori di petrolio. Nel complesso, il freno alla crescita EM dovuto a questo fattore sembra inferiore rispetto al 2014-15, quando entrambi i valori delle materie prime petrolifere e non petrolifere subirono un forte calo.

Il rallentamento del commercio mondiale è un altro potenziale freno alla crescita degli EM attuale e per il prossimo futuro. L’indicatore del commercio mondiale elaborato da Oxford Economics segnala che la crescita degli scambi commerciali è scesa da circa il 6% annuale registrato a gennaio a circa il 2,5% attuale. Questi valori sono migliori di quelli del periodo 2014-15, ma l’indicatore Oxford Economics suggerisce che un’ulteriore decelerazione sia molto probabile (anche a causa della guerra commerciale portata avanti da Trump).

Sono numerosi i segnali che fanno ritenere che questo insieme di shock esterni stia iniziando a influire negativamente sulla crescita degli EM. Per l’Argentina e la Turchia il forte impatto negativo delle recenti tensioni finanziarie è già storia. Nel secondo e terzo trimestre 2018 il PIL argentino è stimato crollare oltre il 4% su base annua e la recessione è attesa estendersi anche al 2019 nonostante l’accordo raggiunto con l’FMI su un programma significativo di sostegno finanziario. In Turchia, il clima di peggioramento delle condizioni finanziarie si è accompagnato a un drastico inasprimento monetario (con tassi di interesse a breve oltre il 20%), al contenimento del bilancio pubblico e a una contrazione della fiducia delle imprese, con l’indice PMI (Purchasing Managers Index) in territorio negativo da agosto. Anche i PMI di Russia, Tailandia e Sudafrica hanno evidenziato un declino nei mesi scorsi – con il Sudafrica entrato ufficialmente in recessione nel secondo trimestre del 2018.

In compenso, essendo l’aggregato dei paesi emergenti molto eterogeneo, la crescita complessiva sarà sostenuta nel breve e medio termine da una più rapida espansione degli esportatori di petrolio (eccezion fatta per la Russia, alle prese con le conseguenze delle sanzioni) e una forte crescita in India e in Cina.

Tuttavia, le prospettive per i paesi emergenti importatori di petrolio – al di fuori di India e Cina, appunto – sono peggiorate. I rischi di previsioni al ribasso per gli EM rimangono quindi considerevoli. Un ulteriore rafforzamento del dollaro dovuto al progressivo rialzo dei tassi di interesse indicato dalla Fed in concomitanza con una guerra tariffaria in grado di condizionare ulteriormente il commercio globale getterebbero le basi per un periodo di accentuata difficoltà e a rischi di default per i paesi più esposti finanziariamente a partire dal 2019 e per i prossimi anni.