Perché anche la Cina fa rotta per l’Artico
La Cina si è interessata all’Artico fin dai primi decenni del 1900, ma solo recentemente ha cominciato ad attuare in questa parte di mondo una strategia di ampio respiro. Ciò dipende da diversi fattori: la presenza di grandi risorse energetiche e minerarie; lo sviluppo di nuove rotte commerciali agevolate dal progressivo scioglimento dei ghiacci; la ricerca scientifica; il commercio ittico. I tratti salienti della politica cinese in questa regione vanno inseriti anche nel contesto del recente abbassamento del prezzo del petrolio.
Uno Stato “quasi artico”
La Cina si definisce uno Stato “vicino all’Artico” (jin beiji guojia), un importante “stakeholder” (lihai guanxi guo) in questa parte di mondo. Eppure la regione dista dai suoi confini circa 1.600 chilometri e Pechino non ha ancora prodotto un documento ufficiale che illustri la sua politica in merito. Ciò significa che ad oggi l’Artico non figura ai primi posti nell’agenda di politica estera cinese. Eppure, nella Repubblica Popolare questo dossier è affrontato spesso e in modo approfondito dai politici, dai media e dai centri di ricerca.
L’inizio delle attività cinesi nell’Artico risale al 1925, quando il paese è entrato a far parte dell’Accordo di Svalbard, che consente a Pechino di pescare e condurre attività commerciali nell’omonimo arcipelago (sotto sovranità norvegese). Nel 2013 la Repubblica Popolare ha assunto lo status di “osservatore permanente” presso il Consiglio artico, il forum internazionale per la cooperazione nella regione, di cui sono membri Stati Uniti, Russia, Canada, Norvegia, Danimarca, Svezia, Islanda e Finlandia. I partecipanti a pieno titolo hanno l’opportunità di concordare le politiche regionali, privilegio che gli osservatori permanenti (in totale 12, compresa l’Italia) non hanno. La presenza della Cina nel Consiglio le consente comunque di sfruttare sia il contesto multilaterale sia quello bilaterale per condurre attività diplomatiche e commerciali di rilievo.
A caccia di energia
Secondo il US Geological Survey, nell’Artico vi sarebbero circa il 13 % del petrolio, il 30% del gas naturale e il 20% del gas naturale liquefatto (Gnl) inesplorati ma tecnicamente estraibili al mondo. Circa l’84% di queste risorse stimate dovrebbero trovarsi offshore.
L’abbassamento del prezzo del petrolio degli ultimi mesi ha però reso l’estrazione del greggio nella regione meno conveniente che altrove. Secondo uno studio di Deloitte il costo medio di estrazione del petrolio nell’Artico (su cui pesano le difficili condizioni climatiche e le tecnologie necessarie) è oggi di 75 dollari al barile ($/b), circa il triplo di quello necessario per la medesima attività in Medio Oriente (27 $/b). Quindi, perché sia conveniente operare in questa parte di mondo, il suo prezzo dovrebbe aggirarsi intorno ai 100 $/b. Non a caso negli ultimi mesi la Shell in Alaska e la Statoil in Norvegia hanno deciso di interrompere alcune delle loro attività. Il Direttorato petrolifero norvegese, l’organo regolatore dell’industria petrolifera nazionale, ha affermato che la produzione di greggio e gas in questo paese calerà gradualmente fino al 2019.
La Cina è allo stesso tempo il quarto più grande produttore e il primo importatore di petrolio al mondo. Le sue riserve non bastano per soddisfare la domanda interna e la sua crescita (pur rallentata rispetto agli ultimi anni), pertanto importa quantità ingenti d’idrocarburi dall’estero, in primis daglle instabili regioni del Medio Oriente e dell’Africa subsahariana. L’abbassamento del prezzo del petrolio favorisce lo shopping energetico della Cina, ma danneggia i suoi investimenti nell’Artico.
L’azienda petrolifera China Petroleum & Chemical Corporation (Sinopec), ad esempio, non sta ottenendo i profitti sperati dopo l’acquisizione (nel 2011, per 2.2 miliardi di dollari) dell’omologa canadese Daylight Energy e pertanto ne ha ridotto le trivellazioni a pochi siti strategici. Sinopec detiene anche il 9% di Syncrude Canada, la cui la produzione al momento languisce, e il 49% della canadese Talisman Energy. Nel 2013, inoltre, la China National Offshore Oil Corp (Cnooc) aveva acquisito l’azienda energetica canadese Nexen, il cui bilancio era in rosso per 15.1 miliardi di dollari. Dopo circa tre anni, la produzione energetica di questa compagnia è scarsa e l’investimento non soddisfa le esigenze cinesi. Nel 2014 la Cnooc è diventata anche la prima azienda del Dragone ad ottenere l’autorizzazione a cercare il petrolio nell’Artico. La compagnia aveva fatto domanda all’autorità islandese insieme alla Eykon Energy e alla Petoro Iceland. Pechino ha sviluppato un ottimo rapporto con l’Islanda, che ha un ruolo importante nella trasformazione istituzionale della regione. Questo paese è stato nel 2013 il primo nell’Artico (e nell’Ue) ad aver finalizzato un accordo di libero scambio con la Cina.
In sostanza, le potenzialità energetiche della regione, il cambiamento climatico, la possibile riduzione dei costi tecnologici futuri e le necessità di lungo periodo cinesi spingono Pechino ad assicurarsi un ruolo di primo piano nella regione a prescindere dalle attuali oscillazioni del mercato del greggio.
Una via della seta artica?
Gli interessi cinesi non riguardano solo l’energia. Lo scioglimento dei ghiacci permetterà a Pechino di sviluppare nuove vie commerciali per raggiungere l’Europa. Il gigante dei trasporti marittimi China Cosco Holdings Company Limited pianifica di lanciare la prima tratta “regolare” Asia-Europa attraverso la Rotta marittima del Nord. Questa è lunga 8.100 miglia nautiche, passa dal Mare di Kara, procede lungo la costa settentrionale della Russia e arriva fino all’Oceano Pacifico attraverso lo Stretto di Bering.
Seguendo la Rotta marittima del Nord anziché servirsi del Canale di Suez, le navi cargo impiegherebbero circa 15 giorni in meno per andare da Shanghai a Rotterdam. Il tragitto al momento è percorribile solo tra luglio e novembre, ovvero i mesi più caldi. Nel 2015, anche a causa del rallentamento economico globale, solo 40mila tonnellate di merci hanno seguito questa via e il 75% è stata trasportato dai cinesi. Si tratta di un calo netto dai dati del 2012 e nel 2013, quando il volume era stato di circa 1.35 milioni di tonnellate. Ad ogni modo, nel 2030, quando lo scioglimento dei ghiacci dovrebbe ampliare ulteriormente lo spazio di transito delle navi, i volumi di spedizione dovrebbero raggiungere gli 80 milioni di tonnellate.
In tale contesto le relazioni sino-russe hanno un ruolo importante. Come è noto, la crisi ucraina e l’antagonismo con gli Stati Uniti hanno spinto Mosca a riavvicinarsi a Pechino. I due governi hanno sancito questa collaborazione – che difficilmente si tradurrà però in vera alleanza – con una serie di accordi energetici. Pechino considera la rotta marittima del Nord “la soluzione più economica” per commerciare con il Vecchio Continente e Mosca ha chiesto ufficialmente di partecipare al suo sviluppo.
La rotta marittima del Nord è rilevante anche alla luce del progetto infrastrutturale e commerciale “Una cintura, una via” (Yidai, yilu) lanciato dal presidente cinese Xi Jinping nel 2013. Questo, ispirato alle antiche vie della Seta, raggiungerà l’Europa per terra (attraversando Asia Centrale e Medio Oriente) e per mare (passando lo Stretto di Malacca, toccando l’India e il Kenya per poi immettersi nel Mar Mediterraneo). Non è da escludere che in futuro Pechino decida di sviluppare una “via della seta artica”, per abbracciare a Nord e a Sud il continente eurasiatico.
Cambiamento climatico e ricerca scientifica
Nell’Artico la Repubblica Popolare è impegnata infine a livello scientifico perché ritiene che gli effetti negativi che il cambiamento climatico hanno sulla regione si ripercuotano sul proprio clima, sulla produzione agricola nazionale e potenzialmente sullo sviluppo sociale ed economico. Tra il 1985 e il 2012, nell’Artico l’Impero di Mezzo (tradotto più esattamente “Impero di Centro”) ha dato via a 5 spedizioni. Nel 2004 l’Istituto per la ricerca polare cinese ha istituito la stazione artica “Fiume Giallo” (Huanghe zhan) sulle isole norvegesi Svalbard per condurre ricerche scientifiche. Cina e Russia inoltre intendono condurre la loro prima spedizione congiunta nella regione a breve, con l’obiettivo di mappare le profondità artiche per conoscerne la composizione chimica e fisica.
Per approfondire la questione del cambiamento climatico nella regione, i rappresentanti cinesi prendono parte a diversi comitati, tra cui le conferenze Arctic Frontiers a Tromsø (Norvegia) e Arctic Circle a Reykjavík (Islanda). In questo quadro promuovono soprattutto l’agenda cinese di sostenibilità ambientale.
L’approccio multisettoriale della Cina nella regione è piuttosto pubblicizzato dai media nazionali. Pechino vuole infatti abituare i cittadini al coinvolgimento del paese in questa parte di mondo in vista di un crescente impegno futuro. Inoltre, la Cina spera che tale strategia le fornisca maggiore voce in capitolo sui dossier energetici e commerciali e che contribuisca a rafforzare la sua immagine come potenza globale sul piano politico, economico e militare agli occhi del resto del mondo.
I rapporti tra i paesi artici (per esempio Russia, Danimarca, Norvegia, Canada, Stati Uniti) sono segnati da alcune dispute territoriali. Per motivi geografici, al momento la Cina non interviene su tale argomento, promuove genericamente i princìpi della cooperazione pacifica e respinge le accuse secondo cui le sue attività potrebbero modificare lo status quo nell’Artico. Alla luce dei molteplici interessi di una potenza con aspirazioni globali, il ruolo cinese nella regione è quasi certamente destinato a crescere.