Per la Cina, la via messicana contro i dazi USA
Il sostantivo inglese «shoring» non ha un equivalente di pari significato nella lingua italiana, tuttavia, con un appropriato prefisso, per esempio «on-shoring» o anche «re-shoring», una cauta traduzione è pure possibile: quella decisione o quell’attività di riportare un sistema logistico-produttivo, o anche una sola parte di esso, dal luogo da dove era stato precedentemente spostato o, parimenti, da dove aveva subito un processo di delocalizzazione («off-shoring»), per ragioni di rendimento economico. Il ritorno al luogo dove esso si trovava originariamente, quasi come un ritorno a casa omerico, ovvero sulla costa originaria (“shoring”), è un termine che nasce in un contesto specificatamente angloamericano.
E negli ultimi anni, il sostantivo «shoring» si è arricchito di altri coloriti prefissi, come «friend-shoring», ovvero delocalizzare sì le attività economiche, ma solo in paesi a basso rischio di interruzione delle forniture e politicamente amici. Oppure «near-shoring», e cioè se proprio non si può riportarle a casa (sottinteso: dal lontano Oriente) trasferire le attività economiche in Paesi almeno vicini alle proprie coste, o ai propri confini nazionali.
Il Messico rappresenta per i partiti politici e le imprese degli Stati Uniti d’America un caso particolare, poiché «friend-shoring» e «near-shoring» coincidono perfettamente, almeno per la durata dell’accordo di libero scambio tra Stati Uniti, Messico e Canada (USMCA), o quanto meno fino alla prossima revisione prevista tra una dozzina di anni, precisamente nell’anno 2036.
Nel caso specifico delle automobili, l’accordo prevede l’assenza di dazi doganali se almeno il 75% del valore della vettura sia stato creato in uno dei tre paesi membri dell’accordo. È la cosiddetta «rule of origin», con lo scopo di arginare la prevista invasione di automobili cinesi, in particolare di automobili elettriche, dal rapporto qualità-prezzo estremamente conveniente, indipendentemente dalle ragioni lecite o illecite del loro vantaggio competitivo rispetto alle medesime automobili prodotte all’interno dei confini nazionali statunitensi.
In aggiunta all’accordo di libero scambio, già nel 2018 l’amministrazione Trump iniziò a imporre tariffe sulle importazioni cinesi – in particolare su automobili, acciaio e alluminio – sostenendo che le pratiche commerciali del governo di Pechino violavano le regole del commercio globale. A seguire, l’amministrazione Biden ha mantenuto tali tariffe, chiarendo egli stesso che l’antagonismo nei confronti della Repubblica Popolare Cinese era una rara area di terreno comune tra democratici e repubblicani. Di questa visione condivisa è un chiaro esempio la “legge sulla riduzione dell’inflazione”, nome improprio ma dalle intenzioni cristalline, ovvero favorire il ritorno negli Stati Uniti (re-shoring), o in Paesi amici (friend-shoring) e vicini (near-shoring), delle aziende nazionali che precedentemente erano partite per lidi lontani (off-shoring), anche per contenere le possibili interruzioni delle catene globali del valore, come l’esperienza del covid insegna.
«Fatta la legge, trovato l’inganno» è detto coniato dalla ricca tradizione della lingua italiana, ma la sua consuetudine è prassi che non ha confini nazionali, oppure, se si vuole essere più tecnici e più eleganti, «stipulato l’accordo, progettata l’elusione».
Un’auto elettrica utilitaria prodotta in Cina è venduta sul mercato statunitense a circa 10mila dollari, inclusivi dei dazi attuali di importazione, un prezzo di poco superiore a uno scooter di 125 cm3 di cilindrata. Se si realizzano le intenzioni dell’amministrazione Biden di applicare alle auto elettriche cinesi dazi di importazione pari al loro valore doganale pieno, cioè il 100%, le auto elettriche cinesi, in particolare i modelli di fascia economica, rimarrebbero comunque molto competitive per prezzo di vendita, ma per le aziende cinesi i conti sono presto fatti.
Delocalizzare le fabbriche cinesi di produzione di componentistica e, soprattutto, di assemblaggio delle automobili nelle regioni messicane al confine con gli Stati Uniti significa cogliere una grande opportunità, almeno in termini di i) annullamento di dazi passati, presenti e futuri, ii) minori tempi e costi di trasporto, iii) manodopera qualificata a fronte di salari più bassi.
Prendendo in considerazione, per esempio, il solo costo del lavoro, i salari messicani di fabbrica oscillano, a seconda della località, tra i 2,75 e i 4,82 dollari l’ora, mentre in Cina sono mediamente intorno ai 6,50 dollari l’ora.
Oltre a risparmiare significativamente sui costi totali di produzione, le auto elettriche cinesi prodotte in Messico sono considerate completamente messicane: possono dunque superare le barriere commerciali dell’USMCA. Una questione niente affatto nuova, che vale non solo per le auto elettriche, ma per qualunque altro prodotto, dai mobili per l’arredamento alle turbine a gas, che ha portato il Messico a superare la Cina come paese esportatore verso gli Stati Uniti.
Per l’Ufficio del censimento degli Stati Uniti, nei soli ultimi dieci anni, le esportazioni messicane negli Stati Uniti sono passate dai 296 miliardi di dollari del 2014 ai 472 miliardi del 2023, un balzo del 60%. Per i primi cinque mesi del 2024 è confermata la tendenza alla crescita del valore delle esportazioni, cosa che porta il Messico al secondo posto nella classifica dei principali paesi esportatori di beni negli Stati Uniti, preceduto solo dall’Unione Europea. Diversamente è accaduto alla Cina, le cui esportazioni sono diminuite dell’8,9% negli ultimi dieci anni a un tasso negativo costante annuo dello 0,9%, che continua la sua discesa anche nei primi mesi dell’anno in corso.
Ciò che più sorprende, almeno nelle apparenze, è che la piccola economia messicana abbia superato l’anno scorso il gigante cinese per esportazione di beni negli Stati Uniti per una differenza complessiva di 45 miliardi di dollari. La tendenza è destinata a proseguire nei prossimi anni.
Se per evitare i dazi le merci delle aziende cinesi entrano negli Stati Uniti non più dalla porta principale, ma da una porta secondaria, ovvero attraverso il confine meridionale, allora, come prima conseguenza, dovrebbe risultare una analoga crescita delle importazioni di beni dalla Cina al Messico, per esempio in componentistica meccanica ed elettronica.
E infatti, secondo la Segreteria dell’economia del Governo del Messico, negli ultimi diciotto anni in cui sono disponibili dati sugli scambi commerciali tra Messico e Cina, le importazioni cinesi in Messico sono passate dai 24 miliardi di dollari del 2006 ai 114 miliardi del 2023, una quantità quasi quadruplicata, cresciuta costantemente a un tasso del 9% annuo.
Anche le esportazioni messicane in Cina sono cresciute a un passo simile, con l’unica differenza che in valore assoluto sono passate, nel medesimo periodo considerato, da 2 a 9 miliardi di dollari, meno di un decimo del valore delle importazioni dalla Cina. Per il Messico, le esportazioni verso la Cina e le importazioni dalla Cina compongono una bilancia commerciale negativa per ogni singolo anno del periodo 2006-2023, totalizzando complessivamente un deficit commerciale di oltre mille miliardi di dollari. Significa che il Paese latino-americano è letteralmente invaso dai prodotti made in China.
Tuttavia, è necessaria una seconda condizione per evitare i dazi, ovvero aggiungere valore economico alle merci importate dalla Cina con l’obiettivo di conferire al prodotto finale quel 75% di valore aggiunto necessario per definire quel bene un prodotto «Hecho en México». Almeno nel caso specifico delle automobili, dunque, dovrebbe risultare una analoga crescita degli investimenti diretti cinesi in Messico per costruire sistemi logistico-produttivi – a controllo societario cinese – per trasformare, assemblare e trasportare le merci di importazione cinesi sul territorio messicano.
Di nuovo, ancora per la Segreteria dell’economia del governo di Città del Messico, la massa di investimenti diretti esteri dalla Cina al Messico è passata dai 272 milioni di dollari del decennio 2004-2013 ai 1.843 milioni della decade successiva 2014-2023, una somma più che sestuplicata in un batter di ciglia.
I dati dei flussi di beni e di capitali nella relazione triangolare tra Cina, Messico e Stati Uniti mostrano evidenza fattuale del raggiro, sebbene formalmente lecito, delle aziende cinesi per potere esportare le proprie merci nel territorio statunitense senza i dazi doganali passati, presenti e futuri imposti da Washington. A corroborare questa evidenza ci sono anche i risultati delle ultime ricerche di mercato della norvegese Xeneta AS che rivela per il 2023 un aumento del 60% delle spedizioni marittime di container dalla Cina al Messico, precisamente passate da 73mila ai 117mila container espressi in unità equivalente di container di venti piedi di lunghezza (twenty-foot equivalent unit, TEU), considerando che già l’anno precedente il numero di container era aumento del 35%.
Per gli Stati Uniti, attendere fino al termine dell’accordo commerciale con il Messico, previsto per il 30 giugno 2036, per rinegoziarne i termini, potrebbe comportare la definitiva estinzione di settori economici fondamentali per il Paese. Prima fra tutti l’industria automobilistica e l’intero ecosistema a essa associato, come da tempo denunciano associazioni di produttori e lavoratori, unite come mai prima per arginare l’invasione di automobili elettriche e altri manufatti cinesi dal Messico, come la Alliance for American Manufacturing di Washington.
La Casa Bianca ha poche possibilità formali di contenere la marea di prodotti cinesi fabbricati in Messico che premono ai propri confini meridionali. Potrebbero essere aumentate le pressioni su Città del Messico affinché la «triangolazione» sia ridotta, ma il governo messicano continua lecitamente a dichiarare il suo grande interesse per gli investimenti diretti esteri nel proprio Paese, con una particolare attenzione per gli investimenti cinesi, giocando spesso con compiacimento al ruolo di «terzo» tra i due proverbiali litiganti.
I prodotti messicani fabbricati da aziende a capitale cinese in Messico sono acquistati da aziende e consumatori americani, che, evidentemente, a parità di qualità dei prodotti, ritengono il prezzo di acquisto di tali prodotti, sussidiati o non sussidiati, più vantaggioso rispetto ai prodotti «Made in USA» o agli stessi prodotti importati da paesi come l’Unione Europea o il Giappone, una convenienza personale a cui nessuno vuole rinunciare per amor di patria, almeno fino a quando si tratta di prodotti classificabili come «commodity», cioè prodotti più o meno uguali a tanti altri disponibili sul proprio mercato.
Il costo di un prodotto industriale è composto del costo della manodopera, dei materiali, dei macchinari e di altre spese generali più tasse e imposte, voci sulle quali l’industria statunitense – e non solo – poco o nulla può fare per rendere i propri prodotti competitivi rispetto ai prodotti cinesi, ovvero preferibili rispetto ai prodotti sino-messicani.
In mancanza della barriera dei dazi, assieme a un aumento delle pressioni politiche, a Washington rimangono solo pochi mezzi non tariffari permessi dall’accordo commerciale, come per esempio ispezioni presso stabilimenti in Messico, o anche in Canada, che gruppi sindacali nazionali possono richiedere quando sospettano violazioni dei diritti dei lavoratori, ma anche questo tipo di azioni avrebbero effetti minimi e, comunque, circoscritte a un numero puntuale di aziende a controllo cinese.
Per la Cina, il Messico sta agli Stati Uniti come per Annibale le Alpi stavano a Roma, e ai partiti statunitensi converrebbe trovare tra loro un nuovo Publio Cornelio Scipione detto l’Africano. Anzi, il Messicano.