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Pechino-Washington: il nuovo muro tecnologico

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Gli eventi dell’ultimo decennio hanno segnato la fine di un’illusione: quella dell’engagement occidentale con la Cina, paese che attraverso l’apertura di mercato e le contaminazioni della globalizzazione sarebbe dovuto evolvere verso un sistema politico più liberale e pluralista. Oggi ci troviamo invece sulla soglia di una nuova era di competizione strategica tra grandi potenze, dove si sono ormai delineati chiaramente due modelli sociopolitici contrastanti.

Da un lato di questo schieramento c’è l’universo della democrazia liberale, seppure alle prese con la crisi sistemica scatenata dall’ondata populista, guidato dagli Stati Uniti e dove l’Europa trova per ora una collocazione ondivaga, anche se il nuovo corso del presidente Joe Biden sta già rammendando il quadro delle relazioni transatlantiche. Dall’altro lato della nuova cortina di ferro siedono, invece, paesi espressione dei nuovi autoritarismi euroasiatici, in primis la Repubblica popolare cinese che con la rapida risposta alla pandemia ha visto aumentare il proprio appeal internazionale.

 

La tecnologia ha giocato un ruolo fondamentale nella biforcazione dei due modelli. Per anni, le tecnologie digitali sono state al centro della narrazione della fine della storia, dove internet avrebbe garantito a tutti i cittadini del mondo l’accesso alle informazioni e una nuova capacità di esprimere le proprie opinioni, favorendo l’approdo naturale dei sistemi politici autoritari alla democrazia. Oggi sembra rivelarsi vero il contrario: l’uso massiccio dei dati digitali e le decisioni automatizzate degli algoritmi hanno favorito l’ubiquità e onnipresenza del potere dello Stato, abbassando drasticamente i costi della sorveglianza e della repressione. In Cina, l’economia delle piattaforme si è saldata al potere politico dando vita a una forma di autoritarismo digitale.

La rivoluzione delle tecnologie digitali, aprendo la porta all’automazione e all’utilizzo dell’intelligenza artificiale, ha anche importanti risvolti geopolitici: come argomentava Joseph Schumpeter, esiste una forte correlazione tra l’innovazione, il potere tecnico-scientifico di una nazione, e la sua capacità di proiezione economica. La quarta rivoluzione industriale, con gli enormi vantaggi di produttività derivati dall’utilizzo dell’intelligenza artificiale nel settore dei servizi e dell’automazione industriale, promette di scavare una seconda “Grande Divergenza” tra le nazioni, proprio come la prima rivoluzione industriale, agli inizi del xix secolo, scavò un solco tra l’Occidente industrializzato e il resto del mondo.

Non è un caso, quindi, che di fronte ai rapidi progressi della Repubblica popolare cinese nel settore delle tecnologie digitali, la competizione internazionale si sia concentrata su questo punto. Pechino è ancora indietro, soprattutto per quanto riguarda la produzione di alcune tecnologie abilitanti come quella dei semiconduttori. Dal canto suo, però, la Repubblica popolare ha a disposizione una base di utenti molto ampia e la possibilità di usufruire di grandi quantità di dati per affinare i propri prodotti e colmare il gap. Nell’ambito delle tecnologie fintech, ad esempio, la Cina rappresenta già la punta avanzata dell’innovazione, contando su un altissimo tasso di transazioni online.

 

L’AMERICA ALLA GUERRA DELL’INNOVAZIONE. La crescita digitale della Repubblica popolare cinese, che fino a poco tempo fa si è avvantaggiata dei technology transfer favoriti da un regime internazionale di libero scambio e dei copiosi investimenti esteri, ha indotto Washington a un cambio di prospettiva strategica. In sostanza, la tecnologia è tornata al centro della politica estera americana proprio come avvenne durante la prima guerra fredda, quando a più riprese la strategia di contenimento americana tentò di arrestare gli sviluppi tecnologici sovietici: nel 1950, l’Internal Security Act concedeva, ad esempio, al governo federale la possibilità di negare i visti a cittadini stranieri sospettati di poter condurre atti di spionaggio o sabotaggio industriale; trent’anni più tardi, il presidente Ronald Reagan costituiva il Technology Transfer Intelligence Committee per monitorare la cooperazione scientifica con l’Unione Sovietica e prevenire i rischi di furto intellettuale.

Primo interprete del cambio di paradigma a Washington, che mira ora a un decoupling tecnologico, e di conseguenza economico, dalla Cina, è stato l’ex presidente Donald Trump. Dietro i toni ideologici e virulenti del suo protezionismo commerciale e dei numerosi attacchi a Pechino, si nascondeva una modificazione strutturale dell’ordine internazionale. Come sottolineato da Alessandro Aresu, il capitalismo politico americano, nonostante la retorica libertaria, da sempre poggia su una formidabile macchina amministrativa per orientare l’economia e guidarla verso gli obiettivi della propria politica estera. Nei passati tre anni, Washington ha rafforzato il proprio apparato di protezione commerciale e introdotto misure atte a limitare la crescita tecnologica cinese, ancora dipendente – ma per quanto ancora? – dal know-how occidentale.

A partire dall’agosto del 2018, l’Export Control Reform Act ha ridotto l’esportazione all’estero delle tecnologie emergenti duali, quelle cioè con doppia applicazione civile e militare. Nello stesso mese, con il Foreign Investment Risk Review Modernization Act, Trump ha rafforzato l’autorità presidenziale e quella del Committee on Foreign Investment in the United States per controllare la natura degli investimenti esteri e le transazioni di aziende non americane, riservandosi il diritto di intervenire sulla base di prerogative di sicurezza nazionale.

Messo in sicurezza l’accesso alle tecnologie potenzialmente cruciali per la Difesa e posto uno scudo a investimenti esteri, l’amministrazione americana ha ingaggiato uno scontro più diretto con i colossi tecnologici cinesi, a partire dal settore dove le aziende americane risultano più deboli in termini relativi: quello delle tecnologie di telefonia mobile 5G.

Secondo il Wall Street Journal, la Cina ha più abbonati 5G degli Stati Uniti, non solo in totale ma anche pro capite. Ha più smartphone 5G in vendita, e a prezzi più bassi, e ha una copertura più diffusa. Tutto questo ha garantito a colossi cinesi come Huawei e ZTE la possibilità di testare i propri prodotti su una base di utenti più ampia, mettendo a punto un’offerta commerciale competitiva, soprattutto dal punto di vista dei costi delle infrastrutture portanti della rete. A oggi, il 75% del mercato globale del 5G è controllato da cinque aziende: Huawei, zte, Nokia, Ericsson e Cisco, con i colossi cinesi in posizione dominante.

Nell’ottica di Washington, il primato delle aziende cinesi sul 5G non rappresenta tanto un vulnus commerciale che gli impedisce di accedere al ricco mercato della Repubblica popolare – da tempo il “Great Firewall” di Pechino agisce già come schermo protezionistico informale alla penetrazione delle Big Tech statunitensi – quanto un problema di natura geoeconomica. La rete 5G è, infatti, parte integrante della Belt and Road Initiative, il grande piano infrastrutturale della Cina volto a creare una nuova Via della Seta commerciale a cavallo tra Medio Oriente, Africa orientale ed Europa. Costruire le “autostrade” su cui correranno i dati, attraverso l’attivismo estero delle proprie aziende di telecomunicazione, vuol dire assicurarsi un vantaggio competitivo dal punto di vista economico e rafforzare la propria proiezione geopolitica sull’Eurasia.

Proprio da Huawei è partita la controffensiva statunitense, volta ad arrestare il trasferimento di competenze e tecnologie lungo la direttrice del Pacifico. A maggio 2019, l’azienda cinese e le sue numerose affiliate sono state ufficialmente inserite nella lista nera del Bureau of Industry and Security del dipartimento del Commercio degli Stati Uniti, restringendo il loro accesso a software e tecnologie americane.

Nella seconda metà dell’anno successivo, complice anche l’irreggimentazione economica imposta dalla pandemia, il perimetro della sicurezza tecnologica statunitense è stato ulteriormente esteso: sono state introdotte restrizioni sui visti per gli Stati Uniti agli impiegati di alcune aziende cinesi ed è stato rafforzato il controllo all’accesso del know-how tecnologico nazionale, vietando anche alle aziende estere di vendere alcune tecnologie americane ai giganti di Pechino. Quest’ultima misura è servita a Washington prima di tutto per tracciare un solco netto sullo schieramento internazionale dei propri partner, mobilitando i propri alleati più stretti – quei Five Eyes che la rete di intelligence condivisa con gli Stati Uniti rende naturalmente più suscettibili ai problemi di sicurezza sollevati dalla crescita tecnologica cinese – e costringendo l’Unione Europea – ancora alla ricerca del proprio collocamento in questa nuova guerra fredda tecnologica – a scegliere da che parte stare.

Lo scontro non cessa di estendersi: gli ordini esecutivi firmati dall’ex presidente Trump che proibiscono l’utilizzo di TikTok e WeChat segnalano un salto di qualità nella contesa. Questa comincia a interessare anche l’economia delle piattaforme, coinvolgendo i grandi attori privati della Silicon Valley: a più riprese Google, Facebook and Amazon si sono schierate a favore della linea dura contro gli operatori della Repubblica popolare, cercando di ottenere vantaggi competitivi e utilizzando lo spauracchio della sicurezza tecnologica per rigettare la crescente pressione dell’antitrust americano.

Nonostante il mutamento politico interno impresso da Joe Biden, la nuova amministrazione sembra intenzionata a mantenere un atteggiamento assertivo nei confronti di Pechino, cercando semmai un quadro di maggiore concertazione con i propri alleati europei, con un ritorno ai dettami dell’interventismo liberale. Alla cerimonia di inaugurazione della nuova presidenza, lo scorso gennaio, è stato formalmente invitato anche l’ambasciatore di Taiwan a Washington. È la prima volta che accade dal 1979, quando gli Stati Uniti riconobbero ufficialmente la Repubblica popolare come legittimo governo della Cina; un chiaro segno che il guanto di sfida rimane sul tavolo.

 

UN DRAGONE DIGITALE ANCORA FRAGILE. Dal canto suo, la Repubblica popolare cinese ha risposto al nuovo corso statunitense con una serie di politiche protezionistiche di rappresaglia: nell’autunno dello scorso anno, Pechino ha pubblicato una lista di enti e aziende considerati “non affidabili” per la sicurezza nazionale e introdotto nuove leggi sul controllo delle esportazioni, volte a restringere il trasferimento non autorizzato all’estero di tecnologie emergenti prodotte dalle proprie aziende e università.

Allo stesso tempo, la Cina ha però cercato di minimizzare l’impatto tecnologico delle restrizioni al commercio imposte dagli Stati Uniti, agendo lungo una triplice direzione: continuando i suoi massicci investimenti lungo tutto la filiera dell’infrastruttura digitale per affrancarsi dalla dipendenza estera, moltiplicando il proprio attivismo in seno alla comunità internazionale degli standard tecnologici e cercando di diversificare i propri rapporti commerciali, alla ricerca di un nuovo pivot europeo.

Negli ultimi anni, la Cina ha compiuto passi da gigante nella ricerca di base e nello sviluppo di soluzioni di intelligenza artificiale (ia), in linea con il desiderio del segretario generale Xi Jinping di rendere il paese la superpotenza digitale incontrastata entro il 2030. Già due anni fa, i ricercatori cinesi hanno pubblicato 24.929 paper scientifici nell’ambito dell’IA e della machine learning, più di quanti ne abbiano prodotti l’Europa o gli Stati Uniti. Nonostante i suoi rapidi progressi nel campo tecnologico, tuttavia, le ambizioni del Dragone poggiano su basi fragili.

La Cina è, infatti, estremamente dipendente dall’industria dei semiconduttori e dai chip statunitensi, che rappresentano ancora i mattoni fondamentali dell’economia digitale: secondo i dati Reuters, il 95% dei server cinesi utilizza CPU dell’americana Intel. Se gli Stati Uniti decidessero di tagliare totalmente le forniture di hardware avanzato, l’industria cinese subirebbe dei contraccolpi fortissimi. Anche per questa ragione Pechino sta cercando di imboccare una strada autarchica, lanciando, nel suo ultimo piano quinquennale, la strategia della cosiddetta “doppia circolazione”: potenziare la domanda interna per rafforzare l’industria nazionale, soprattutto nel settore dei servizi, mantenendo allo stesso tempo un secondo circuito aperto a export e investimenti esteri.

In parallelo, la Cina continua lavorare in seno agli organismi internazionali per influenzare la messa a punto degli standard tecnici di diverse tecnologie emergenti, dal 5G alla blockchain, passando per il cloud computing e l’Internet of Things. Negli ultimi anni, Pechino ha operato sotto traccia per governare l’approvazione delle specifiche tecniche e dei requisiti minimi internazionali per le nuove tecnologie, con l’obiettivo di aumentare il proprio soft power internazionale e l’influenza delle proprie aziende. Con il programma China Standards 2035, che la Repubblica popolare si appresta a lanciare, l’ambizione è quella di creare una sfera internazionale a trazione tecnologica cinese.

L’ultima freccia all’arco di Pechino per resistere alle pressioni statunitensi è quella di diversificare i propri legami internazionali, cercando di frazionare il fronte dell’Occidente. L’annuncio del Comprehensive Agreement on Investment con l’Unione Europea sul finire dell’anno 2020 – poco prima che il presidente Biden prendesse ufficialmente le redini dell’amministrazione statunitense – si muove in questa direzione. Con tale accordo, non a caso fortemente criticato da Washington, Pechino punta a garantire alle proprie aziende un accesso al mercato europeo e un aggancio necessario al know-how tecnologico occidentale; in questo, fanno buon gioco le titubanze dell’Europa, che fatica a trovare un proprio posizionamento strategico per via della sostanziale arretratezza dei propri campioni digitali e rischia di finire schiacciata dalla guerra tecnologica alle porte.

Alcune zone di cooperazione restano aperte per i due contendenti: tanto la Repubblica popolare quanto gli Stati Uniti hanno avviato una riflessione su come regolare il crescente potere privato delle aziende digitali – per salvaguardare l’autonomia del Partito, in un caso, e i diritti dei consumatori, nell’altro; ma le crescenti misure di protezionismo tecnologico sui due lati dell’oceano Pacifico stanno già demarcando le rispettive aree di interesse geoeconomico.

Dopo anni di globalizzazione e integrazione tecnologica, la rete digitale mondiale, sempre più sovrapposta al mondo fisico, si avvia a un frazionamento in blocchi separati in lotta per un’egemonia dove a contare sarà la capacità di estrarre e processare dati.