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Obama e Renzi, come l’America guarda all’Europa

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 L’incontro a Washington tra Matteo Renzi e Barack Obama del 18 ottobre aiuta a capire, in senso più ampio, lo stato dei rapporti transatlantici e di quelli intra-europei. Il Presidente americano uscente ha dato un notevole “endorsement” al premier italiano, forse oltre le aspettative. Ciò che più conta, Obama ha riconosciuto nell’Italia un partner che incarna i molti cambiamenti del quadro europeo: non c’è più il classico “motore franco-tedesco” (o se c’è, è un motore che gira al minimo), non è chiaro quale ruolo potrà avere il vecchio “equilibratore” britannico (che è stato al contempo parte dell’anglosfera e parte dei progetti continentali), e vanno gestiti in modo nuovo i rapporti delicati lungo gli assi Nord-Sud ed Est-Ovest in Europa.

Il Vecchio Continente è quasi irriconoscibile rispetto a pochi anni fa, perché sono diverse le sfide interne alla sua coesione e le minacce esterne alla sua sicurezza. Intanto, sono emerse nuove generazioni di leader politici (come Renzi), espressione di una costellazione sociale e culturale che ha poco a che fare con quella del XX secolo. D’altra parte, anche al di là dell’Atlantico lo stesso Obama è politicamente il frutto di una coalizione elettorale, vincente nel 2008 e ancora nel 2012, legata alla demografia americana del nuovo millennio – in una forma certo più costruttiva e ottimistica di quella che ha assunto la campagna presidenziale 2016, tutta incentrata sulle paure e le divisioni.

È su questo sfondo in rapido movimento che la visita di Stato è stata un successo di immagine per il Primo Ministro italiano. Ben oltre questo dato contingente si intravede una forte preoccupazione americana per la situazione in cui si trovano gli alleati europei, troppo divisi su questioni essenziali e dunque anche incapaci di supportare l’azione americana quando Washington non vuole o non può esercitare una leadership autonoma.

Ora, è naturale che una visita di Stato non cambi i “fondamentali”, né di per sé risolva i problemi che restano – l’Italia  ha tuttora un peso incerto sullo scenario europeo ed è frenata soprattutto dal dato strutturale del debito pubblico e della bassa crescita. Eppure, le circostanze consentono a volte di superare temporaneamente i limiti e quantomeno orientare l’azione di governo in direzioni virtuose.

Nel caso dell’Italia, non si tratta di cercare scorciatoie per divincolarsi dalle regole imposte da Bruxelles (cioè, non dimentichiamolo, da decisioni collettive di cui Roma stessa ovviamente è parte attiva); si tratta invece di lavorare seriamente “in casa propria”, mentre si sfruttano al meglio alcuni dei propri attuali punti di forza internazionali. Tra questi: aver colto prima di altri l’esigenza di spingere davvero la crescita anche con misure fuori dall’attuale ortodossia europea; aver imparato dall’esperienza diretta cosa significa gestire intensi flussi migratori e di rifugiati; aver indicato l’urgenza di aiutare i libici a trovare un nuovo equilibrio interno; aver ricercato un rapporto costruttivo con un partner molto ostico come la Russia. Sono dossier su cui Roma è forse un passo avanti rispetto ad altri partner, come l’America di Obama ha riconosciuto. I problemi strutturali restano gravi, ma gli “asset” italiani sono realmente preziosi.

Per l’Italia, gli sforzi sul piano interno e l’attivismo europeo-internazionale devono muoversi in parallelo. In modo analogo, per l’Europa, la costruzione di un nuovo consenso continentale e il ripensamento del rapporto transatlantico devono rafforzarsi a vicenda: come ha detto Obama, “patti chiari, amicizia lunga”.