international analysis and commentary

Obama e l’America-mondo

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I tanti sondaggi prodotti in questi otto anni hanno costantemente evidenziato la solidità e tenuta della popolarità di Barack Obama fuori dai confini statunitensi e in Europa in particolare[1].

I dati sono sorprendenti per varie ragioni. In primo luogo, e a dispetto di molte previsioni, essi sono rimasti sostanzialmente costanti nel tempo. Era lecito attendersi una fisiologica contrazione della fascinazione globale per il 44° Presidente statunitense alimentata dall’inevitabile scarto tra le aspettative – elevatissime e irrealistiche – generate dalla sua elezione e la prosaica realtà di un’azione di governo soggetta a molteplici compromessi, mediazioni e indietreggiamenti.

Questa contrazione è stata però molto contenuta e nell’ultimo biennio si è assistito a una sorta di riattivazione del mito di Obama: di quella “Obamania” che aveva travolto soprattutto l’Europa nei mesi precedenti e immediatamente successivi alla sua elezione (in un sondaggio del giugno 2016 del Pew Research Center, quasi l’80% degli europei ha dichiarato di avere fiducia nella politica estera di Obama, con picchi dell’86% in Germania e dell’84% in Francia[2]). Il tutto è avvenuto nonostante le crescenti critiche mosse da molti studiosi ed esperti a un’azione internazionale che durante i due mandati di Obama è stata spesso accusata di essere priva di una visione chiara e definita degli obiettivi statunitensi e dei mezzi da dispiegare per perseguirli: di non avere, in altre parole, quella necessaria e dottrinale grand strategy sempre elaborata invece dalle amministrazioni statunitensi del dopoguerra.

La popolarità globale di Obama è apparsa inoltre vieppiù incongruente con un discorso di politica estera – quello del Presidente – dai toni ostentatamente pragmatici e realistici; centrato cioè su una nozione assai minimalista di ciò che gli Usa possono e debbono fare, lontano dai codici di un interventismo, liberale o neoconservatore, che a lungo è sembrato capace di una maggiore forza mobilitante dell’opinione pubblica interna e internazionale. Infine, la popolarità di Obama non si è estesa automaticamente a molte delle sue azioni, come alcuni dei summenzionati sondaggi (in particolare i Transatlantic Trends del German Marshall Fund) hanno chiaramente indicato. Vi è stato insomma uno scarto tra la valutazione della persona di Obama e quella delle sue politiche, come se le due potessero essere in qualche modo dissociate.

Come si spiegano questa sorta di vasta infatuazione globale per il Presidente statunitense e le evidenti contraddizioni che la informano e rendono possibile? Quattro risposte (e ipotesi) possono essere avanzate.

La prima è legata appunto alla persona di Obama: a una biografia sincretica, cosmopolita, globale che è stata spesso posta al centro della retorica presidenziale. Per riaffermare l’idea che con Obama gli Stati Uniti non solo tornavano nel mondo, dopo gli anni della dolosa separazione unilaterale di Bush, ma riaffermavano il loro essere tale mondo nella sua interezza e globalità. Obama – il primo presidente del Pacifico che conosce personalmente l’Islam e ha radici africane e irlandesi – questo mondo lo poteva credibilmente sussumere e rappresentare. Poteva cioè riattivare l’idea eccezionalista e fondativa degli Stati Uniti come “paese-mondo”: come esperimento intrinsecamente globale e transnazionale.

Una rappresentazione eccezionalista che però si è combinata con un discorso di politica estera deliberatamente anti-eccezionalista e, per certi aspetti, post-imperiale. È questa la seconda possibile spiegazione della popolarità globale di Obama. Il suo utilizzo di codici retorici così lontani da quelli classici dell’internazionalismo statunitense, che enfatizzano costantemente sia la natura benevola e auto-contenuta dell’egemonia statunitense sia la possibilità di fare pieno uso della impareggiabile dotazione di potenza di cui gli USA dispongono, a partire ovviamente dallo strumento militare. Sull’utilizzo del quale Obama ha espresso invece un forte scetticismo, denunciando la propensione a sopravvalutarne l’utilità e ad abusarne, attraverso un uso non sufficientemente selettivo oltre che ispirato spesso da obiettivi altri rispetto a quelli strettamente militari (su tutti la storica ossessione per una credibilità che andrebbe costantemente riaffermata).

Una terza, facile spiegazione è rappresentata da ciò che Barack Obama non è e non è stato: dalla comparazione con chi (e cosa) lo ha preceduto e, presumibilmente, seguirà; G.W. Bush e Donald Trump. Tra le tante, intrinseche contraddizioni dell’egemonia statunitense per come questa è stata ridefinita e rilanciata dopo la sua crisi negli anni Settanta vi è anche la difficoltà di rendere complementari, o quantomeno compatibili, i discorsi funzionali alla costruzione di quel doppio consenso, interno e internazionale, di cui l’egemone giocoforza abbisogna nell’esercizio della sua leadership. Da Ronald Reagan in poi la mobilitazione dell’opinione pubblica interna a sostegno di una politica estera attiva e interventista è quasi sempre passata attraverso una retorica scopertamente nazionalista, che non di rado esagerava la portata della minaccia esterna, e che finiva per alienare le opinioni pubbliche di gran parte del mondo, incluse quelle degli alleati storici di Washington. Con Obama questa tensione è stata in parte risolta, laddove è immaginabile invece che si riaccenda con Trump.

E questo ci porta alla quarta e ultima risposta, legata più agli USA che a Obama in quanto tale. O, meglio, alla persistente forza mitopoietica degli Stati Uniti e del loro esperimento democratico.

Con un afroamericano (e una famiglia afroamericana) alla Casa Bianca è parso riattivarsi una volta ancora il mito di un’“America” capace costantemente di rinnovarsi e trasformarsi. Di un esperimento politico – e costituzionale – in costante evoluzione: sempre perfettibile (e temporaneamente peggiorabile); mai completo. Una visione gradualistica ed evolutiva centrale nella visione e nella retorica obamiana, come abbiamo scoperto in questi anni. Che Obama evoca oggi una volta ancora per fronteggiare il prossimo arrivo alla Casa Bianca del Presidente forse più radicale e politicamente scorretto nella storia del paese.

-Dello stesso autore, in febbraio uscirà per Feltrinelli il libro  “Era Obama. Dalla Speranza del Cambiamento all’Elezione di Trump”.


[1] Per degli utili esempi si vedano i vari Transatlantic Trends del German Marshall Fund (http://trends.gmfus.org/) e le recenti rilevazioni del Pew Research Center, As Obama Years Draw to Close, President and U.S. Seen Favorably in Europe and Asia, 29 giugno 2016, e di Gallup, U.S. Global Image Remains Strong Among Major World Powers, 14 ottobre 2016.
[2] Pew Research Center, As Obama Years Draw to Close, President and U.S. Seen Favorably in Europe and Asia, cit.