Negoziare sempre, fidarsi mai: Giappone e Corea del Sud alle prese con la Cina
Quando il 31 dicembre del 2020 l’Unione Europea ha annunciato la fine dei negoziati dell’EU-China Comprehensive Agreement on Investment (CAI), l’accordo per gli investimenti tra Bruxelles e Pechino, è tornato a far discutere il cosiddetto “modello Merkel” nei rapporti con la Cina. La Cancelliera tedesca, principale sponsor dell’accordo economico, da tempo applica nei rapporti con la Cina una politica molto pragmatica: da un lato ci sono le questioni di principio, lo stato di diritto e la difesa dei diritti umani, dall’altro ci sono gli affari.
La Germania, tra quelli europei, è il paese che ospita la più numerosa comunità di dissidenti cinesi, tra i quali alcuni anche molto esposti mediaticamente come Liu Xia, la moglie del premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo. Nonostante questo, la Germania resta il principale partner commerciale della Cina in Europa. Il “modello Merkel” si basa sull’interesse nel mercato cinese pur considerando “le differenze fondamentali” tra i due paesi, come si legge nei documenti del ministero degli Esteri di Berlino: “Ciò è vero in particolare per quanto riguarda i diritti umani, le libertà individuali e le questioni che riguardano l’applicazione del diritto internazionale, l’ordine internazionale e l’interpretazione del multilateralismo”.
Resta il fatto che, mentre il presidente francese Emmanuel Macron parlava di Pechino come di un “rivale sistemico”, la Germania gettava le basi per un nuovo ruolo dell’Unione Europea che fosse in sostanza terzo e indipendente nel confronto tra America e Cina: un ruolo molto criticato soprattutto dall’ala più duramente anti-cinese a Washington.
Il modello Merkel però non è una novità. Da più di un decennio, cioè da quando l’assertività cinese è diventata sempre più problematica per i paesi dell’area, in Asia orientale diversi governi hanno cambiato e “ottimizzato” la propria politica estera per continuare a fare affari con l’attore più importante senza essere costretti allo scontro.
Uno dei casi più emblematici è quello del Giappone. Una fotografia che è passata alla storia è quella del summit dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (APEC, con i suoi attuali 21 partecipanti) del 2014: il primo ministro giapponese Shinzo Abe e il presidente cinese Xi Jinping si incontravano per la prima volta dopo diversi anni in cui i rapporti diplomatici tra i due paesi erano precipitati ai livelli più bassi sin dall’istituzione delle relazioni bilaterali tra i due paesi, nel 1972. Quattro anni prima era esplosa la questione delle isole Senkaku/Diaoyu: la Cina aveva esteso anche al Mar cinese orientale la sua “Linea dei Nove punti” (la Nine Dash Line, una nuova mappa delle acque territoriali del Pacifico elaborata da Pechino) e aveva reclamato la territorialità delle isole amministrate dalla prefettura di Okinawa giapponese. Con una successione di azioni tit for tat, ossia ritorsioni equivalenti, la tensione diplomatica tra Tokyo e Pechino stava diventando praticamente insostenibile. Nel 2014 Abe e Xi decisero di invertire la rotta, soprattutto per preservare le relazioni commerciali, e si strinsero la mano davanti ai fotografi anche se entrambi avevano l’atteggiamento di “due ragazzini che hanno litigato a scuola costretti a fare la pace”, scriveva all’epoca Matt Schiavenza sull’Atlantic.
Il bilaterale Cina-Giappone serviva a ripristinare alcune formalità diplomatiche, perché sebbene le relazioni commerciali tra i due paesi difficilmente subiscono contraccolpi, come spiegano spesso i funzionari del ministero degli Esteri di Tokyo, c’era la possibilità che sul lungo periodo il sentimento anticinese in Giappone, e quello antigiapponese in Cina, montasse fino a livelli allarmanti. Due anni dopo quella stretta di mano, al G20, i leader della seconda e terza economia del mondo si incontrano di nuovo, e la situazione è ben più distesa: Giappone e Cina restano su due posizioni differenti su diverse questioni, si legge nel comunicato finale del ministero degli Esteri cinese, ma entrambi i paesi puntano molto su “una nuova fase dei rapporti bilaterali”.
Poi, come un terremoto, alla Casa Bianca arriva Donald Trump e la sua guerra commerciale con la Cina. In quanto tradizionale alleato dell’America, dal Giappone ci si sarebbe aspettati, almeno in parte, che avrebbe seguito la politica anticinese americana. E invece l’abile diplomatico Shinzo Abe si sfila dalla contrapposizione, soprattutto quando Trump inizia a domandare, sia al Giappone sia alla Corea del Sud, un contributo economico maggiore in cambio del contributo americano alla difesa del Pacifico.
Nel corso degli anni successivi, anche nei documenti ufficiali di politica estera nipponica, non si descrive più Pechino come un nemico, ma come un vicino da cui non si può prescindere, quando non un’opportunità economica. Questo non cambia le posizioni di Tokyo sulle questioni legate ai diritti umani – il governo giapponese è stato tra i più duri con Pechino sulla questione di Hong Kong, per esempio – ma fa entrare il Giappone in una nuova fase. Il governo di Abe vorrebbe intestarsi la leadership dei paesi asiatici che gravitano attorno agli USA, che vorrebbero un approccio più costruttivo nei rapporti con la Cina.
E’ in questo senso che nasce e viene promossa dal lato giapponese la cosiddetta “strategia dell’Indo-Pacifico”: un corridoio di investimenti e infrastrutture molto simile al progetto della “Nuova Via della Seta” cinese, che difende la navigabilità delle acque e il multilateralismo, ma che i funzionari nipponici spiegano come “complementare, e non alternativa” alla Via della Seta di Pechino. Con le dimissioni di Abe, nell’estate del 2020, e l’arrivo al governo di Tokyo del poco incisivo Yoshihide Suga, è difficile immaginare per il Giappone mosse ardite nel breve periodo, ma un piccolo passo di emancipazione da Washington sulla politica estera è stato ormai fatto.
Più o meno la stessa parabola diplomatica l’ha avuta la Corea del Sud. Nel 2017, durante il periodo più caotico per la politica di Seul, ovvero l’impeachment dell’ex presidente Park Geun-hye, i ministeri della Difesa americano e sudcoreano approvano l’istallazione di uno scudo antimissile prodotto da Lockheed Martin sul suolo sudcoreano. Il Terminal High Altitude Area Defense (THAAD) teoricamente serve a proteggere la Corea (e le basi militari americane) dai missili nordcoreani. In pratica, i radar del sistema hanno un raggio d’azione di duemila chilometri, e controllano gran parte del Mar Giallo e del Mar Cinese Meridionale, dove la Cina persegue interessi che ritiene vitali.
Pechino si oppone all’istallazione e protesta, e lancia contro la Corea del Sud un violento boicottaggio commerciale, che inizia nel 2016 e – per alcuni settori, come i diritti televisivi – non è ancora finito. La “ritorsione economica” contro Seul riguarda soprattutto il turismo, un settore che in Corea del Sud fa per larga parte affidamento alla presenza dei visitatori cinesi, e poi le attività artistiche e l’importazione di generi di consumo sudcoreani. Vengono aperti diversi fascicoli contro la Lotte, uno dei più ricchi conglomerati sudcoreani, che è costretta a chiudere l’80 per cento dei suoi 112 negozi attivi in Cina.
Quando il presidente democratico Moon Jae-in viene eletto, i rapporti diplomatici con Pechino sono ai minimi storici. Inizia quindi un lungo avvicinamento di Seul al presidente Xi Jinping, ma già dal primo incontro tra i due leader si intravede l’approccio pragmatico: Moon manda una delegazione governativa al primo Forum sulla Via della Seta che si tiene nella capitale cinese il 14 e 15 maggio del 2017, un gesto molto apprezzato a Pechino. Tra i paesi dell’Indo-Pacifico, la Corea del Sud – undicesima economia del mondo – è attualmente quella più corteggiata: la nuova Amministrazione americana di Joe Biden, che conta molto sulla costruzione di un più ampio e solido fronte anticinese in Asia, dovrà fare i conti a Seul con un alleato che sì, apprezza e contribuisce un ruolo di leadership americana, ma non rinnega il suo nuovo rapporto privilegiato con Pechino.
La presidenza Trump ha accelerato questo processo di emancipazione degli alleati americani in Asia orientale. Simbolo, e punto di non ritorno, del pragmatismo che si avverte nei governi di Tokyo e Seul (e non solo) è la firma nel novembre del 2020 del Partenariato economico globale regionale (RCEP), il mastodontico accordo di libero scambio tra la Cina, i dieci paesi dell’area Asean e quattro alleati strategici fondamentali per l’America: Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud. Il RCEP per Pechino è il simbolo dell’apertura a un nuovo multilateralismo, e la risposta al messaggio mandato da Trump nel 2017 quando si sfilò dal Partenariato Trans-Pacifico (TPP, firmato dall’amministrazione Obama nel febbraio 2016).
L’Amministrazione Biden avrà bisogno di molto tempo per ricostruire il rapporto di fiducia con i suoi alleati asiatici, ammesso che loro siano disposti a farlo. Del resto, soprattutto Tokyo, negli ultimi anni ha capito che il “modello Giapponese” per gestire la Cina (che si potrebbe tradurre più o meno così: “Negoziare sempre, fidarsi mai”) può funzionare, anche senza l’ideologia da Guerra Fredda che corre nei corridoi della Casa Bianca anche nell’era post-Trump.