Media e comunicazione politica nello stress-test del coronavirus
L’Italia nella terza settimana di quarantena ha visto in campo, sul piano della comunicazione, le tre armi principali di cui dispone: hanno infatti preso parola di fronte alla nazione, ma anche oltre i suoi confini, l’italiano considerato a ragion veduta più autorevole in patria e all’estero, Mario Draghi, poi Papa Francesco ed infine il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Da questi vertici assoluti della società civile, delle sue emanazioni spirituali (declinate in un ordinamento giuridico denominato Chiesa) e delle Istituzioni, si può solo scendere di rango. Nessuno, in altre parole, al momento ha un’autorevolezza paragonabile a quella delle tre figure citate. Eppure, nell’arco di poche ore, l’Italia ha avuto il bisogno di ricorrere al loro blasone, carisma e prestigio.
E’ la conferma di una situazione di crisi epocale, percepita come la madre di tutte le battaglie, dalla quale chi ne uscirà vivo ha sin d’ora la consapevolezza che nulla sarà più come prima? E allora: se è davvero così estrema l’ora che il Paese vive, il racconto che ne deriva da parte dei mezzi di comunicazione di massa, è sintonizzato sulla realtà dei fatti o è invece vittima di un décalage che non permette di divulgare un’informazione aderente agli sviluppi in corso?
Chiunque cercasse di dare una riposta univoca, affermativa o negativa, a questa domanda commetterebbe un errore di superbia intellettuale; ma ciò non significa che il quesito sia indecifrabile e quindi da lasciare in balia delle emozioni o peggio della, ammettiamolo senza ipocrisia, troppo ferrea logica dei numeri (auditel, copie vendute, traffico web) per i quali basta spesso abbassare l’asticella del pudico per essere fugacemente premiati. Fugacemente perché, nella conclamata bulimia di consenso social, i like in cassaforte oggi saranno già lettera morta domani, moneta fuori corso.
Da una parte non c’è dubbio che il coronavirus abbia stravolto la narrazione paradigmatica dei media, o meglio la sua ricetta (un mix di cronaca, esperti e vox–populi), a tal punto da… lasciarla identica negli stilemi. Non è un gioco di parole. Il virus sta creando negli organi di comunicazione un vero e proprio stallo tra significante e significato. In parole più semplici: COVID-19 non è un nemico invisibile (frase senza senso), ma un nemico sconosciuto.
Se l’informazione avesse metabolizzato questo concetto, dal quale deriva il cauto atteggiamento della comunità scientifica e gli inviti alla “pazienza” come virtù da coltivare da parte di politici col rango di statisti (piaccia o meno, la sola Angela Merkel ha incarnato questa virtù), forse il tasso attuale di “infodemia” calerebbe.
Sarebbe quindi molto utile se l’informazione, in una fase d’emergenza come l’attuale, raccogliesse l’appello delle tre figure emblematiche prima citate, oltre il mero dato di cronaca. Ossia diffondendo quotidianamente notizie-ragionamento che, partendo dal presupposto di un popolo alfabetizzato e in grado di capire passaggi complessi, abbiano coerenza intellettuale ma anche psicologica.
Il cortocircuito nasce infatti dalla confusione assurda dei piani semantici e stilistici – dal tazebao mediatico dove al virologo si affianca il videoblogger e allo statistico-matematico il tuttologo – restituendo un quadro talmente confuso da generare nell’opinione pubblica un comprensibile meccanismo di autodifesa, anticamera della sfiducia.
In tema di percezione del pericolo, e ruolo dei media e risposta degli Stati, c’è poi una considerazione di ordine ecologico al limite del paradosso. Anche qui l’impietosa statistica si mescola alla psicologia pubblica e ci restituisce un quadro con molti interrogativi e poche certezze. Perché?
Perché l’agenzia preposta delle Nazioni Unite (UNEP) conferma che l’emergenza climatica (tecnicamente il Global Climate Risk Index) ha ucciso nel mondo 500 mila persone negli ultimi 20 anni. Giunti alla metà di questo secolo, e mancano solo trent’anni, il costo umano sarà di 250 mila vittime all’anno. In Italia, prima e nonostante il Covid-19, muoiono migliaia di persone ogni anno d’inquinamento ambientale. Continueranno a morire anche dopo il 15 aprile, dopo la fine (forse) della tarkovskiana “zona protetta”.
Il coronavirus, con un prezzo umano e sociale altissimo, ci permette oggi di capire come la percezione del rischio sia legata al fattore tempo e come lavorare sempre in emergenza costituisca il principale handicap dei governi liberali, e cioè dei corpi politici chiamati a risolvere nel volgere di un lasso breve di tempo (una legislatura, un mandato presidenziale) crisi sistemiche di medio o lungo periodo. Un “tempo breve” raccontato con altrettanta celerità dai mass-media.
La sanità arriva quint’ultima non già nella visione del Premier del momento, ci mancherebbe, ma come frutto di un lavoro della classe dirigente politica che in base ai dati a disposizione ha creato una lista di priorità. E’ d’altronde vero, anche all’occhio del cronista di medio corso al quale basta affidarsi alla memoria senza scomodare le carte, che i governi italiani succedutisi nell’ultimo decennio (e nel merito dall’ultimo Berlusconi all’attuale, passando per Monti, Letta, Renzi e Gentiloni) hanno tutti ridotto nei fatti (non negli impegni formali di spesa, sempre però disattesi al ribasso) il supporto alla sanità.
Pensare alle priorità sulla base di elementi statistici rilevanti e non della propaganda ideologica (di ogni segno e genere) può fare la differenza. Considerare quindi, nel corso di un rimpasto di governo, la casella del Ministero della Salute come un jolly per garantire la tenuta parlamentare dell’esecutivo è un ulteriore indice di un approccio squisitamente utilitaristico a temi d’importanza strategica. Il ruolo dell’informazione – watchdog delle dialettica politica – è dunque cruciale nel porre l’accento sulle idiosincrasie del sistema piuttosto che renderle cacofoniche, aneddotiche, o addirittura “infodemiche”.
La quotidiana rassegna stampa della Protezione Civile delle ore 18.00, con la pubblicazione del bollettino, produce informazione neutra o genera ansia? Cercare risposte e soluzioni a questi interrogativi, senza averle già preconfezionate nella mente come un mantra buono per tutte le situazioni di crisi (ogni crisi, si potrebbe parafrasare Tolstoj, è infelice a modo suo) è l’unica strada percorribile.