Mark Zuckerberg e la retorica dell’anti-Trump
Fin dall’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca lo scorso novembre, Mark Zuckerberg, 32enne inventore di Facebook, si è imposto tra le voci contrarie al nuovo presidente. La decisione di non partecipare al primo incontro dei giganti dell’industria tecnologica con il presidente-eletto a dicembre, che ha visto riuniti, fra gli altri, i CEO di Apple, Google e Microsoft, insieme alle parole dure riservate sulla sua pagina Facebook al “Muslim ban” di fine gennaio, fanno senza dubbio di Zuckerberg un critico di Trump. Una posizione peculiare, se paragonata ad altri protagonisti della Silicon Valley: come Peter Thiel, co-fondatore di Paypal e investitore nello stesso Facebook, uno dei principali consiglieri di Trump fin dalla campagna elettorale. O come Elon Musk, fondatore di Tesla e Space X, e Travis Kalanick, CEO di Uber, entrati a far parte dello Strategic and Policy Forum, un organo di consulenza stabilito dallo stesso Trump.
La direzione contraria e, pur nei limiti del politically correct, esibita del CEO di Facebook ha suscitato più di un entusiasmo su un suo possibile ruolo da anti-Trump anche in politica. Dopotutto, vista anche la crisi di identità in corso nel partito Democratico, cosa c’è di meglio di un magnate per opporsi a un altro magnate? In questo contesto, la pubblicazione del Facebook manifesto, una lettera aperta di 6000 parole intitolata “Building a Global Community” che pone le basi per l’evoluzione futura del social network, è stata vista sui media come il lancio di un manifesto politico vero e proprio, in opposizione all’attuale inquilino della Casa Bianca.
In realtà, potrebbe essere eccessivo, o comunque prematuro, considerare il manifesto di Facebook la “discesa in campo” di Zuckerberg. Nonostante le esibizioni del giovane CEO da capo di Stato (si vedano gli incontri al vertice con alcuni leader mondiali e le sempre più frequenti interviste concesse a grandi media), le suggestioni in merito appaiono quasi wishful thinking degno del miglior Galileo di Brecht: emanazione di una terra infelice che ha bisogno di eroi.
Infatti, a un primo livello, come sostiene MarketWatch, il manifesto di Facebook non è altro che un’ottima operazione di PR: Zuckerberg ribatte all’accusa di aver favorito l’elezione di Trump grazie alle notizie false che circolano sul suo social network, promettendo di fare di più per contrastarle; riafferma il ruolo di Facebook nel creare comunità e mettere insieme le persone; annuncia una nuova fase di sviluppo “dell’infrastruttura sociale che abbia il potere di costruire una comunità globale che funzioni per tutti”. La lettera, scritta com’è, appare ben lungi dall’essere un manifesto politico, e soprattutto un manifesto politico contro Trump: evita di proporre un’alternativa pratica, soprattutto sui temi più “caldi” e controversi, e preferisce tenersi distante dall’attualità, in modo quasi anodino. Più che un programma di governo, è la dichiarazione di intenti di una corporation globale, con 1,8 miliardi di utenti, che vuole rispondere a una serie di critiche e continuare a fare profitto.
È sbagliato quindi vedere nella lettera di Zuckerberg una presa di posizione politica? Solo in parte. Perché, se è vero che non contiene proposte attuabili nella pratica, la lettera di Zuckerberg assume un certo valore a un livello più profondo. Un valore che in parte proviene dalle modalità particolari in cui il documento è stato pubblicato: se altre grandi aziende globali indirizzano delle lettere agli investitori o ai propri dipendenti regolarmente, ogni anno, in questo caso è la prima volta da quando Facebook è quotata in borsa (2012) che la sua “missione” viene ripensata ed enunciata. Si tratta, quindi, di una dichiarazione troppo importante per essere dismessa, al netto delle voci suggestive che vorrebbero Zuckerberg come candidato alla presidenza nel 2020.
In questa dimensione, la lettera appare al massimo come un manifesto pre-politico. Ma inserita nel suo contesto, può essere non meno dirompente che se lanciasse davvero la campagna elettorale del CEO di Facebook. Il documento, infatti, pur nella sua vaghezza, espone una visione del mondo radicalmente diversa rispetto a quella di Trump. E lo fa con una forza, e una coerenza di pensiero, che al momento sembra non avere eguali tra gli oppositori dell’inquilino della Casa Bianca.
Ciò è evidente prima di tutto nel modo in cui è costruito il testo: Zuckerberg risponde a Trump sul suo terreno, quello della retorica e del lessico, proponendo un sottotesto radicalmente diverso. Se la ormai celebre forza retorica di Trump è nei tweet, nelle bordate da 140 caratteri e negli slogan a effetto, la lettera di Zuckerberg è costruita in modo più arioso, come una Ted Talk: come struttura-base, alla singola frase si sostituisce il paragrafo. Questo fa sì che il ragionamento scorra più lento, più articolato. Senza però che la semplicità ne faccia troppo le spese: il lessico utilizzato rimane abbastanza piano, facile, rivolto al pubblico più vasto possibile. Come d’altra parte è naturale, vista la natura di “lettera aperta alla comunità di Facebook” che caratterizza la lettera.
Analizzando più in profondità il lessico, esso appare esattamente opposto a quello usato da Trump. Dove il neo-presidente USA abbonda di “io”, Zuckerberg usa il “noi”. Per dissociarsi dall’insistenza quasi maniacale dell’inquilino della Casa Bianca sull’opposizione fra “noi” e “loro” e sull’uso in senso tradizionalista del termine “nazione”, il re dei social network punta l’accento su lessemi come “comunità” e “infrastruttura sociale”. Anche in questo caso, la retorica non è fine a se stessa, ma serve a rivelare un modo di concepire il mondo: e allora, ecco che senza avere bisogno di andare nello specifico di singole proposte politiche, il CEO di Facebook riesce a dipingere un universo semantico di apertura, di comunità in contatto fra loro in cui le interazioni permettono di avere accesso a informazioni più veritiere e di “sviluppare il senso civico e i valori collettivi”. Quello che appare dalle sue parole è un mondo dove si guarda con ottimismo al futuro, e dove le soluzioni ai problemi odierni sono legate agli sforzi collettivi, non a quelli di un unico individuo che promette di fare l’America di nuovo grande.
Un’ambiguità di fondo, però, rimane. Dopotutto, la comunità a cui fa riferimento Zuckerberg non è un’entità astratta, ma è quella degli utenti di Facebook; e il ruolo di unione e di rilancio degli ideali sociali è non un invito ad agire o una chiamata alle armi, ma semplicemente un programma di azione di un’azienda multinazionale, che si inserisce nella narrazione tradizionale del social network senza stravolgerla. Troppo presto, quindi, per dire se la lettera del giovane CEO prepara una discesa in campo in prima persona.
Ma intanto è possibile dire che Zuckerberg non è l’opposto polare di Trump, bensì semplicemente un suo avversario che gioca sullo stesso campo: entrambi, prima di vendere una soluzione o un progetto politico, vogliono vendere un prodotto commerciale. E il suo effetto sulla politica e sulla società americana sarebbe altrettanto dirompente.