L’Unione Europea agli occhi del mondo arabo
Negli ultimi anni, il Nord Africa è stato una sorta di cuscinetto usato dall’Unione Europea, e da buona parte dei suoi stati membri, per risolvere alcuni urgenti problemi di politica interna. Questo in un periodo in cui i Paesi del vecchio continente hanno dovuto fare i conti con la crescita di populismi e forze xenofobe, le nuove ondate migratorie e un allarme terrorismo intermittente ma percepito come sempre grave. La politica nei confronti della sponda Sud del Mediterraneo – e nei confronti della stessa Turchia, seppure membro della NATO – è stata quindi influenzata da preoccupazioni prettamente “securitarie”. Nulla di così sconvolgente se si ricorda la politica già implementata prima dell’arrivo delle cosiddette “primavere”, ma certamente un passo indietro rispetto a quanto ci si era promessi a Bruxelles dopo avere osservato la rabbia nelle strade arabe del 2011.
All’indomani delle rivolte e delle proteste, il primo ad ammettere l’urgente necessità di affrontare la sfida lanciata dalle “primavere” fu Stefan Füle – all’epoca Commissario per la politica di allargamento e di vicinato. Riconoscendo che l’UE fino ad allora si era preoccupata quasi esclusivamente della stabilità regionale, proponeva di correggere la rotta, allineando gli interessi ai valori comunitari. In tale ottica, attraverso un significativo cambio di passo, la sponda nord del Mediterrano avrebbe dovuto mettere in opera una politica capace di garantire democrazia, sviluppo e giustizia sociale quali ingredienti indispensabili per una stabilità sostenibile nel lungo periodo. Per compiere quella che all’epoca doveva essere una svolta qualitativa, l’Unione decise quindi di rivedere e riformare la sua politica di vicinato. Tra il 2011 e il 2014 sono stati così redatti ben sei documenti di policy nei quali si aspirava a fare tesoro delle lezioni delle primavere arabe, ponendo quindi l’accento sull’importanza dei fattori socio-economici e la loro connessione con la democrazia. Questo proliferare, senza precedenti, di documenti strategici, non ha però condotto all’auspicato salto di qualità. E nei fatti l’UE non è riuscita a fare tesoro del messaggio lanciato dalle primavere arabe, ripiegando sul paradigma pre-insurrezionale.
La breccia che sembrava essersi aperta nel 2011 si è iniziata a chiudere nel 2013. Da quell’anno in avanti, le conseguenze delle rivolte (in primis quella siriana), la crisi migratoria nel Balcani, l’avvento dell’autoproclamato “stato islamico” e l’arrivo dei seguaci del “califfo” in Europa hanno fatto squillare diversi campanelli d’allarme nel vecchio continente. Anche in ottica elettorale, diversi governi europei, e nel caso turco l’intera Unione, hanno quindi cercato di siglare accordi con i Paesi del bacino sud per contenere i flussi migratori e la possibile infiltrazione di gruppi terroristici.
La politica italiana nei confronti della Libia – risultata nella firma di diversi accordi con le varie forze, milizie e governi in pectore del Paese – è in tal senso esemplare. E lo stesso si può dire osservando la gestione dei rapporti bilaterali con l’Egitto. Lo slalom sul caso Regeni – tra iniziative diplomatiche anche dure e volontà di mantenere i rapporti – ha in parte confermato questa tendenza, mostrando come la politica estera del nostro Paese, e anche la tutela degli interessi nazionali, sia stata in balia di uno degli obiettivi principali del governo in carica: quello di governare le migrazioni, bloccandone l’arrivo di migranti (in molti casi profughi o richiedenti asilo).
Da una parte, il ritorno al passato dell’Europa ha rassicurato gli uomini forti al potere nella regione che si sono sfregati felicemente le mani, non appena hanno capito che le intenzioni europee di cambiare corso erano destinate a rimanere parole. Le richieste di cooperazione in ambito securitario provenienti da Bruxelles e dintorni hanno legittimato molte delle loro condotte, dando manforte anche alla repressione dell’opposizione interna. Un’opposizione bollata indistintamente come terroristica, anche se in realtà molto più composita.
Di tutt’altra natura è stato invece l’atteggiamento delle popolazioni arabe, che da anni osservano come la repressione interna non sia in grado, da sola, di garantire la tanto auspicata stabilità. Per analizzare lo stato d’animo delle opinioni pubbliche nella regione è utile consultare i dati dell’Arab Transformation Survey, ottenuti da sondaggi realizzati in Marocco, Tunisia, Algeria, Libia, Egitto, Giordania e Iraq nell’ambito del progetto ArabTrans, finanziato dalla Commissione europea e portato avanti da un consorzio internazionali di 11 partner, coordinato dall’Università di Aberdeen. I risultati del sondaggio, condotto tra il giugno e il novembre 2014, mostrano una certa delusione nei confronti dell’UE, incapace – secondo gli intervistati – di dare una vera risposta alle preoccupazioni socio-economiche della regione e alle richieste di giustizia sociale provenienti dalle strade, e incapace di contribuire all’instaurazione di una democrazia reale e non solamente procedurale. L’immagine che ne risulta è quella di una potenza che non riesce ad avere un’influenza positiva sullo sviluppo democratico regionale. In tale ottica, il dato egiziano è il più forte, visto che lungo il Nilo solo il 6% della popolazione ha speranze nei confronti di Bruxelles.
Ciononostante, l’UE è preferita agli Stati Uniti come potenza stabilizzatrice della regione. Il 41% degli intervistati ripone, in tal senso, fiducia nell’Unione, contro il 6% di quanti la ripongono negli Stati Uniti. Dei sei Paesi coperti, l’Egitto è nuovamente quello che ha l’immagine più negativa dell’UE (solo il 15% della popolazione la ritiene una forza positiva, contro il 54% dei marocchini). Interessante notare che secondo le popolazioni intervistate i Paesi europei e l’UE nel suo insieme non sono partner con i quali è importante o urgente rafforzare le relazioni. Solo il 7% dei 58 Stati menzionati tra quelli con cui ingaggiare rapporti più stretti sono europei.
Per capire che cosa dovrebbe fare il vecchio continente per guadagnare terreno basta osservare il tipo di sostegno che queste società si aspettano da noi: nel 56% dei casi chiedono diversi tipi di sostegno finanziario (all’occupazione, agli investimenti o ai servizi), oltre a una maggior coerenza politica. Il tutto per ribadire che l’evoluzione della regione e la sua stabilità dipendono soprattutto da fattori economici e sociali. Non è quindi solo una questione di immagine e di retorica: per essere vista come una potenza più amica, l’Unione dovrebbe risolvere proprio la discrepanza tra i propositi messi nero su bianco nei suoi documenti strategici e le politiche implementate senza tenerne conto.