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L’Ucraina nell’Unione: una promessa che non verrà mantenuta

Questo articolo è pubblicato sul numero 3-2024 di Aspenia

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I rapporti futuri tra l’Ucraina e l’Unione Europea dipenderanno soprattutto dall’andamento e dall’esito della guerra in corso da febbraio 2022, e quindi dal processo di adesione all’UE. Le prospettive, in entrambi i casi, sono tutt’altro che rosee. Proprio l’invasione russa di quasi tre anni fa ha spinto Kyiv a presentare formalmente domanda di adesione all’Unione, un atto dal forte significato politico e simbolico per indicare il futuro di integrazione euro-atlantica per il quale la popolazione ucraina voleva e doveva combattere l’invasore russo. Sempre nel 2022 i paesi e le istituzioni UE hanno risposto con un gesto ancora più forte quanto a simbolismo e scelta di campo politica, dando via al processo di allargamento verso uno Stato in guerra con la Federazione Russa.

Due anni dopo quei gesti, il simbolismo deve fare i conti con la realtà del conflitto e dei rapporti di forza in Europa. Nel 2022 l’Ucraina ha respinto le truppe russe da Kyiv, Kharkhiv e Kherson, ma la controffensiva del 2023 è purtroppo fallita. L’offensiva ucraina in territorio russo iniziata ad agosto 2024 ha portato all’occupazione di parte della provincia di Kursk, circa 1300 kmq, segnando un successo operativo per Kyiv e uno smacco politico militare per la Russia, nella speranza di distogliere truppe russe dal Donbass.

Ciò tuttavia al momento non cambia il paradigma del conflitto. Nel complesso, in Ucraina da quasi due anni il fronte è sostanzialmente stabile, nonostante la Russia bombardi costantemente il paese ottenendo modestissimi avanzamenti sul terreno, al prezzo di enormi perdite da entrambe le parti. Né il permesso dato da molti alleati a Kyiv di usare le armi occidentali per colpire oltre il confine russo, né l’arrivo di poche decine di caccia F16 nel corso del 2024, possono cambiare radicalmente i rapporti di forza in campo.

Tali rapporti nel medio-lungo termine favoriscono la Russia, la quale attinge per il reclutamento a un bacino demografico più che doppio rispetto a quello ucraino; Mosca, poi, ha mobilitato risorse di portata continentale per l’economia di guerra, giovandosi del sostegno militare, tecnologico — o perlomeno economico — da parte di Corea del Nord, Iran e Cina, nonché della non adesione alle sanzioni occidentali da parte di molti altri importanti Stati nel mondo.

Siversk, città del Donetsk distrutta dai bombardamenti russi

 

GLI SCENARI POSSIBILI. La guerra convenzionale di attrito, su larga scala e ad alta intensità, in corso dal 2022, rebus sic stantibus è destinata a durare per diversi altri anni in una situazione di stallo militare che vede la Russia occupare saldamente circa il 20% del territorio ucraino, con una continuità territoriale tra Crimea e Donbass attorno al Mar d’Azov. La salvezza dell’80% del proprio paese, una stabilizzazione e in prospettiva un congelamento del fronte sul modello della penisola coreana, insieme a un livello accettabile di difesa aerea dai bombardamenti russi, è realisticamente lo scenario migliore per Kyiv, a condizione che continui un robusto sostegno militare, economico e politico da parte sia nordamericana che europea. In questo scenario potrebbe rientrare o meno uno scambio de facto di territori ucraini occupati con la provincia russa di Kursk.

L’altro scenario vede invece una vittoria di Donald Trump nelle prossime elezioni presidenziali, la conseguente drastica riduzione degli aiuti militari statunitensi all’Ucraina e la ferma volontà da parte della nuova amministrazione repubblicana di negoziare una pace con il Cremlino, costi quel che costi per la sovranità e i confini ucraini. Si tratta di uno scenario tutt’altro che improbabile, considerata sia l’incertezza del voto americano sia le posizioni espresse a più riprese dal ticket presidenziale Trump-Vance, nonché l’opposizione di gran parte dei parlamentari repubblicani già all’ultimo pacchetto di aiuti all’Ucraina voluto dalla presidenza di Joe Biden.

 

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In questo quadro, i paesi europei non vorrebbero e/o non potrebbero colmare il vuoto militare e politico creato da un drastico disimpegno di Washington da Kyiv, per certi versi in modo simile a quanto accaduto con l’abbandono occidentale dell’Afghanistan nel 2021, ma con conseguenze di gran lunga più gravi per l’Europa. Colmare tale vuoto vorrebbe dire, infatti, più che raddoppiare gli aiuti militari europei all’Ucraina rispetto al 2023-2024, con un balzo in avanti sia quantitativo che qualitativo. Ciò a sua volta comporterebbe nel breve termine un costo economico e politico che a est di Vienna buona parte della leadership europea non sosterrebbe, pur riconoscendo in molti casi che il prezzo da pagare per una vittoria russa in Ucraina sarebbe ben maggiore nel lungo periodo.

Significativo e allarmante il fatto che pochi mesi fa la Germania abbia ridotto il volume di aiuti militari all’Ucraina previsti per il 2025 a 4 miliardi di euro, rispetto ai 7,5 stanziati nel 2024, mentre Italia e Francia hanno già raschiato il fondo del barile quanto a equipaggiamenti donabili a Kyiv senza mettere a rischio la propria sicurezza nazionale. Di conseguenza, venendo meno l’attuale sostegno americano “as long as it takes” — come ampiamente preannunciato da Trump e Vance — e in assenza di un raddoppio degli aiuti europei, purtroppo nel giro di pochi anni Kyiv rimarrebbe verosimilmente senza mezzi sufficienti e adeguati per difendersi dalla perdurante offensiva russa, trovandosi costretta a cedere terreno – a partire da Kursk – e/o negoziare una pace molto favorevole a Mosca.

Un soldato ucraino in trincea

 

UN FALLIMENTO ANNUNCIATO. In questo scenario di una pace alle condizioni russe, l’ingresso dell’Ucraina nell’UE è semplicemente fuori discussione. Non va infatti dimenticato che la leadership russa iniziò l’invasione della Crimea nel 2014 proprio per evitare un avvicinamento ucraino alla comunità euro-atlantica, sulla scia del Trattato di associazione e libro scambio siglato nel 2013 tra Kyiv e l’Unione. La rinuncia ucraina alla membership di NATO e UE sarebbe chiaramente una precondizione da parte di Mosca per qualsiasi accordo di pace; richiesta che l’amministrazione Trump non avrebbe problemi ad accettare. Tale esito sarebbe cinicamente accolto con un sospiro di sollievo dall’Ungheria, che sta già rallentando il processo di adesione e gli aiuti militari a Kyiv, ma anche da altri governi o forze politiche nell’Unione — basti pensare al Rassemblement Nationale francese.

Tuttavia, anche nel primo scenario, quello di uno stallo militare e l’80% del paese salvato dall’occupazione russa, l’ingresso dell’Ucraina nell’UE è quasi impossibile. Se dopo più di 25 anni dalla fine delle guerre civili nell’ex Jugoslavia non si vede ancora la fine del processo di adesione dei Balcani occidentali, che sono geograficamente racchiusi tra Stati membri di UE e NATO, è evidente come non sia fattibile l’ingresso di un grande paese in guerra contro una potenza nucleare che vede decine di migliaia di truppe russe occupare il suo territorio. Alcuni sostenitori dell’adesione ucraina citano il caso di Cipro, entrata nell’Unione nonostante la parte settentrionale dell’isola sia governata dall’autoproclamata repubblica turco-cipriota.

Anche in questo caso basta guardare il mappamondo per realizzare la differenza tra una piccola isola antistante la Siria e il secondo paese in Europa per estensione geografica, che confina da un lato con quattro paesi NATO e dall’altro con Russia e Bielorussia. Inoltre, il conflitto militare a Cipro è finito mezzo secolo fa, e la zona turca dell’isola è sotto il controllo più o meno indiretto di un membro dell’Alleanza atlantica e non del nemico dichiarato di quest’ultima. È fuorviante anche il paragone con la Germania Ovest e le Comunità Europee durante la guerra fredda: allora la divisione della Germania era cristallizzata e congelata a livello internazionale, e la Repubblica federale tedesca divenne contestualmente membro della Comunità Europea e perno della difesa collettiva NATO.

Non è un caso se proprio la NATO dopo il 2022 si è ben guardata dall’invitare l’Ucraina a entrare nel club, nonostante le pressioni dei paesi dell’Europa orientale, rinviando tale invito sine die. Se la più potente alleanza militare del mondo, che a differenza dell’UE può contare sugli Stati Uniti e su un’altra potenza nucleare come il Regno Unito, ha scelto di non porsi in rotta di collisione con Mosca accogliendo al suo interno Kyiv, come potrà mai farlo l’Unione che non ha neanche la struttura militare per assicurare la difesa collettiva dei suoi membri? Peraltro, le clausole di solidarietà e mutua assistenza del Trattato di Lisbona impegnano gli Stati UE a difendersi reciprocamente, in caso di aggressione, in modo anche più vincolante dell’articolo 5 del Trattato di Washington sulla difesa collettiva NATO: vista l’ondata di reazioni negative in Europa nel 2023 alle dichiarazioni di Emmanuel Macron sul possibile invio di truppe europee in Ucraina, è facile immaginare che chi non vuole essere coinvolto direttamente nella guerra con Mosca non vorrà Kyiv nell’UE finché il conflitto è in corso o latente – ovvero per decenni.

 

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Seppur secondari nel caso ucraino rispetto alle suddette considerazioni strategico-militari, non vanno infine dimenticati due elementi. Dopo il grande allargamento a est culminato nel 2007, la capacità UE di integrare nuovi Stati è crollata al punto che negli ultimi 17 anni solo la Croazia è entrata nell’Unione. Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia hanno lo status di paesi candidati da oltre un decennio, ma i loro processi di adesione sono in stallo. In molti Stati UE vi è la consapevolezza che gli allargamenti precedenti sono stati faticosi per la stessa Unione, mentre nei paesi candidati vi sono difficoltà e problemi significativi quanto a corruzione, governance, controllo dei confini, allineamento alle normative comunitarie, fondamenti socioeconomici. Problemi e difficoltà esponenzialmente maggiori per un’Ucraina che ha oltre il triplo della popolazione e dell’estensione geografica dei Balcani occidentali, soffre le enormi devastazioni della guerra, la pesante eredità socioeconomica sovietica e, anche nel caso di un conflitto quasi congelato, presenterà un confine di migliaia di chilometri con la Russia. In altre parole, l’Ucraina è un caso unico e straordinario nella storia dell’allargamento dell’UE, non paragonabile con precedenti europei durante e dopo la guerra fredda, che vede tutte le premesse per un fallimento quasi certo del processo di adesione.

 

GLI EFFETTI DI UNA PROMESSA NON MANTENUTA. Di conseguenza, è probabile che i rapporti tra Ucraina e UE nel medio-lungo periodo risentiranno negativamente di una membership che non si realizzerà, e di cui nel corso degli anni diventerà sempre più evidente l’irrealizzabilità. Mutatis mutandis, è una dinamica purtroppo già sperimentata con la Turchia: Ankara è stata invitata a entrare nell’UE nel 2003, ma non vedrà mai realizzato questo invito, con effetti negativi sotto gli occhi di tutti quanto a rapporti euro-turchi. Con tutta probabilità, il caso ucraino sarà sfortunatamente molto più grave e drammatico di quello turco. Se infatti la Turchia di Erdogan ha maturato negli ultimi due decenni un orientamento politico-strategico diverso da quello dell’integrazione europea, coniugato a una maggiore autonomia e assertività in Medio Oriente e Africa, l’Ucraina che resiste con le unghie e con i denti all’invasione russa costruisce e costruirà sempre di più la propria identità nazionale sull’appartenenza all’Occidente, all’Europa e segnatamente all’UE.

La probabile serie di rinvii delle tappe dell’adesione, e soprattutto del suo traguardo finale, genereranno quindi una sempre maggiore frustrazione tra la dirigenza politica, l’opinione pubblica e la popolazione ucraina che hanno creduto alle promesse legali e politiche fatte dalle istituzioni e dagli Stati UE dal 2022 in poi.

Nello scenario di un disimpegno americano, una passività europea e una pace favorevole a Mosca sulla pelle dell’Ucraina, ciò aggiungerà dramma al dramma di una sconfitta militare ucraina subita per mano russa e favorita dal forfait occidentale. L’UE si troverà verosimilmente a gestire l’integrazione di milioni di profughi ucraini al suo interno con un orizzonte temporale pluridecennale, nonché una possibile successiva occupazione russa della Moldova, con ulteriore ondata di rifugiati, mentre i paesi europei dovranno armarsi per difendere, quasi da soli, le repubbliche baltiche da una Russia imbaldanzita dalla vittoria strategica in Ucraina. L’Unione dovrà, inoltre, affrontare il peso politico di una affermazione dell’autocrazia russa sulla democrazia ucraina sostanzialmente a causa delle debolezze delle democrazie occidentali, con tutte le conseguenze in termini di coesione e fiducia politica nel modello rappresentato della stessa UE.

 

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Nello scenario di un fronte stabile seppur non congelato, grazie alla resistenza ucraina e agli aiuti occidentali, lo stallo del processo di adesione UE – in aggiunta a quello NATO – creerà comunque ambiguità e tensioni politiche nei rapporti tra l’Ucraina, gli alleati europei e la stessa Unione. Tensioni che Mosca cercherà di sfruttare per incrinare il sostegno militare euro-atlantico al paese invaso, puntando su quella parte dello spettro politico – in Europa e negli Stati Uniti – che non vuole continuare a sostenere Kyiv sine die e men che meno integrarla nella NATO o nell’UE.

In ogni caso, servirà all’Unione e ai suoi Stati membri una grande dose di leadership, realismo e pragmatismo politico, per gestire sia le implicazioni strategiche del conflitto russo-ucraino, sia le conseguenze di lungo periodo della scelta simbolica compiuta nel 2022 in un’ottica di breve periodo, aprendo un processo di adesione destinato quasi certamente a fallire.

 

 


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