international analysis and commentary

Lo Yemen in crisi acuta: l’intervento della coalizione militare araba e il contesto locale

772

Mentre la battaglia per Aden stava iniziando, è partito l’intervento aereo in Yemen di una coalizione militare araba di dieci Paesi, capeggiata dall’Arabia Saudita e appoggiata politicamente dagli Stati Uniti, che forniscono inoltre sostegno logistico e di intelligence. Sul piano interno, il Paese è infatti diviso in due: il movimento sciita zaidita degli huthi controlla, dopo il golpe di gennaio, la capitale Sana’a, mentre il Presidente ad interim Abdu Rabu Mansur Hadi (sunnita) è prima riparato nel suo “feudo” di Aden e ha poi lasciato il Paese.

Nelle parole degli organizzatori, l’operazione “Tempesta Decisiva” ha l’obiettivo di difendere le istituzioni della transizione (in Aden), internazionalmente riconosciute, nonché impedire che i miliziani sciiti, con la complicità fondamentale dei segmenti di forze di sicurezza fedeli all’ex Presidente Ali Abdullah Saleh, controllino la maggior parte del Paese. Fanno parte della coalizione militare araba le monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia, Qatar, EAU, Kuwait, Bahrein) tranne l’Oman, più l’Egitto, il Marocco e la Giordania (le altre due monarchie arabe), il Sudan, e forse il Pakistan. La Turchia ha dato il suo sostegno politico all’intervento. Nella notte fra il 25 e il 26 marzo, sono partiti i raid aerei a Sana’a contro il palazzo presidenziale occupato e le basi militari controllate dai miliziani sciiti. La coalizione che si sta formando in queste convulse ore ha le sembianze di quell’alleanza militare araba di cui sia l’Arabia Saudita che l’Egitto discutevano da mesi; il Segretario della Lega Araba, Nabil al-Arabi, aveva dichiarato la necessità di costituire una “forza militare araba comune”, “multifunzione”, “capace di intervenire rapidamente” contro “gruppi terroristici”, e per “operazioni di mantenimento della pace”. Libia e Yemen erano i teatri di crisi in cima alle preoccupazioni del Cairo e di Riyadh; ma l’intervento aereo nella repubblica della Penisola arabica non mira a colpire “gruppi terroristici” (come le tante cellule jihadiste presenti) e ha invece come bersaglio le milizie sciite. Quattro navi da guerra egiziane sono entrate nel Canale di Suez, a protezione del Golfo di Aden.

In un contesto così teso, la violenza interconfessionale sta crescendo d’intensità, mescolandosi alle tante linee di conflitto osservabili da anni. Innanzitutto lo scontro fra centro e periferia, con le milizie huthi del nord ma anche il frammentato “Movimento meridionale” (che raccoglie i gruppi autonomisti e indipendentisti) le quali contendono risorse e autonomia alla capitale; gli huthi e il blocco dell’ex Presidente Saleh si sono poi strumentalmente alleati contro Hadi e il partito Islah (Fratelli Musulmani e salafiti), ovvero i protagonisti dell’Accordo di transizione del 2011.

La lotta interna di potere è stata ulteriormente alimentata dall’interferenza delle potenze rivali regionali, Arabia Saudita e Iran: Riyadh appoggia Hadi e le tribù sunnite in chiave anti-huthi, che verosimilmente (e secondo la versione saudita) ricevono invece aiuto materiale dall’Iran. Il fattore settario è dunque alimentato da numerose forze in un quadro fluido di alleanze variabili: basti pensare che il governo di Saleh (anch’egli di fede sciita zaidita), oggi alleato degli huthi per tentare di riprendere il potere, ha combattuto fra il 2004 e il 2010 sei conflitti contro gli huthi, stigmatizzandone proprio l’identità religiosa.

I gravissimi attacchi alle moschee Badr e Hashoush di Sana’a (frequentate da sciiti) del 20 marzo scorso (oltre 140 vittime e 350 feriti) sono stati rivendicati da una sedicente cellula dello “Stato Islamico” in Yemen, un nuovo attore locale la cui reale consistenza è tuttora da verificare. In ogni caso, questa azione di grande violenza testimonia un pericoloso salto di qualità dei gruppi terroristici attivi nel Paese. La presenza di Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP) e dell’affiliata Ansar al-Sharia rappresentano qui una realtà consolidata, indebolita – dopo 13 anni di campagna di counterterrorism statunitense – nella leadership ma non nella capacità di reclutamento. Ora che gli huthi controllano Sana’a e stanno estendendo il loro dominio territoriale ad aree centro-meridionali, a prevalenza sunnita, numerose tribù sunnite si stanno alleando proprio con gli jihadisti contro i miliziani sciiti zaiditi. Un fenomeno che apre nuovi spazi di manovra per cellule jihadiste (magari fuoriuscite da AQAP) che vogliano prestare obbedienza al sedicente Stato Islamico per combattere “a viso aperto” i miliziani sciiti, palesando una rivalità tutta interna al fronte terrorista (come già avvenuto in Siria e in Iraq). AQAP è solita attaccare poliziotti e militari yemeniti, simboli delle autorità centrali, anche se in questi mesi ha intensificato gli atti terroristici contro personaggi politici, capi tribali e religiosi vicini agli huthi; colpendo dentro le moschee, la cellula yemenita che si richiama a “Stato Islamico” ha invece scelto come bersaglio i civili durante la preghiera del venerdì, allargando così il raggio del conflitto.

Dopo gli attentati di Sana’a, il leader del movimento, Abdel Malek al-Huthi, ha chiamato alla “mobilitazione generale contro il terrorismo”. In realtà, lo scontro di potere interno si sta velocemente colorando di toni settari, che possono dunque spaccare il Paese, specie dopo che l’alleanza huthi-Saleh si è spinta militarmente, via Taiz (importante città sunnita da poco occupata), fino ad Aden, per affrontare le forze fedeli al governo riconosciuto di Hadi. Un’anteprima di questo scontro diretto si è già avuta giorni fa, all’aeroporto di Aden, quando i comitati popolari (volontari civili) e alcuni reparti dell’esercito legati ad Hadi hanno combattuto contro gruppi di miliziani (sia huthi che fedeli a Saleh) e contro le Special Security Forces (già Central Security Forces, un tempo guidate dal nipote di Saleh, Yahya) capeggiate ad Aden dal generale dissidente Abdul Hafiz al-Saqqaf.

L’anarchia yemenita è amplificata dalla frantumazione dell’esercito: costruito su base tribale, esso non risponde alle autorità centrali ma ai singoli patrons tra loro in conflitto (ora Saleh e Hadi), rispecchiando così le divisioni della politica. Ali Abdullah Saleh e suo figlio Ahmed, già capo della Guardia Repubblicana e attuale ambasciatore negli Emirati Arabi, esercitano ancora molta influenza su esercito e forze di sicurezza, eredità di un regime ultratrentennale che, nei fatti, persiste.

Nel 2009, l’Arabia Saudita intervenne unilateralmente in territorio yemenita, con bombardamenti e truppe di terra, dopo che gli huthi avevano sconfinato: la performance militare non fu affatto brillante – e, come si vede, non risolse certo i problemi di fondo del Paese vicino. Per i sauditi sarebbe oggi una sfida estremamente insidiosa affrontare, sul terreno, forze ibride, composte sia da miliziani (huthi) che da segmenti di forze di sicurezza pro-Saleh ben addestrate ed equipaggiate (anche dagli Stati Uniti, per la lotta al terrorismo qaedista). Reprimere con la forza il dissenso popolare interno (o nell’estero-vicino del Bahrein, come militari sauditi e poliziotti emiratini hanno fatto nel marzo 2011) è assai diverso dall’ingaggiare una serie di battaglie con unità sia militari che para-militari, per di più in un ambiente a forte tasso jihadista e con rischi di contagio transfrontaliero: le tribù del Najran e del Jizan saudita, al di là del confine (di fede sciita zaidita e ismailita) sono le stesse del nord dello Yemen, sospettate per questo di simpatie verso la causa huthi.

L’intervento militare della coalizione araba in Yemen ha subito provocato la forte reazione verbale dell’Iran e dei governi dei Paesi del cosiddetto arco sciita, l’Iraq, la Siria, e Hezbollah in Libano, che hanno lamentato la violazione della sovranità territoriale yemenita – e Beirut è già politicamente spaccata fra le diverse comunità sull’appoggio/condanna all’operazione. Proprio lo Yemen, il Paese arabo più trascurato da riflettori dei media e dalle analisi politiche, è così destinato a dividere ulteriormente il Medio Oriente, allargando il fossato fra sauditi e iraniani e creando nuove tensioni fra Teheran e Washington, proprio mentre il negoziato sul nucleare sembra in dirittura d’arrivo.

This is an updated version of an article published on March 24, 2015.