international analysis and commentary

Lo “Stato dell’Unione” di un Presidente indebolito

2,361

Il presidente Trump ha tenuto il discorso sullo stato dell’unione, con 82 minuti il più lungo dai tempi di quel chiacchierone di Bill Clinton, in un momento di particolare debolezza politica. Debolezza alla base del sistema, dove il suo consenso popolare, almeno secondo i sondaggi, si sta riducendo un po’ troppo al suo zoccolo duro. E debolezza ai vertici, dove Trump ha perso il controllo della Camera ed è reduce da una prova di forza fallita, e non c’è peggiore debolezza: lo shutdown di 35 giorni è stato uno smacco, e la sua conclusione anche. Il Presidente è stato messo in un angolo dalla Speaker democratica Nancy Pelosi che a un certo punto, con quieta ferocia e soave perfidia (“sadly”), gli ha persino negato lo spazio per il discorso stesso, chiedendogli di rinviarlo finché a Washington e nel paese non fosse tornato il sereno. Avanzando preoccupazioni di sicurezza platealmente pretestuose. Come si fa a celebrare la cerimonia, finché il governo non ha ricominciato a funzionare?

In quel frangente Pelosi ha provocato Trump a una sorta di ritorno al futuro: mandare il suo messaggio in forma scritta, rinunciando a un’ora di esposizione televisiva in prime time con tutta la pompa del caso. In forma scritta, cioè come si usava nell’Ottocento, prima che Woodrow Wilson riesumasse la pratica, inaugurata da George Washington ma poi lasciata cadere da Thomas Jefferson (per lui era un atto troppo monarchico), di pronunciare un discorso in prima persona alle Camere riunite. In effetti la Costituzione prevede solo che il Presidente informi il Congresso “di tanto in tanto”. L’appuntamento annuale di fine gennaio (quest’anno a inizio febbraio per il rinvio di cui sopra) appartiene alla tradizione, non alla legge. E il discorso avviene su invito di una concurrent resolution di Camera e Senato. Insomma, il presidente è un ospite, si inchina al potere legislativo, e l’inchino avviene nell’aula della Camera che è la più spaziosa.

Madam Speaker, che durante il discorso è stata seduta dietro e in effetti un po’ sopra di lui, ha fatto in modo di ricordargli chi è la padrona di casa.

Donald Trump e Nancy Pelosi in un momento del discorso

 

La debolezza di Trump non è solo congiunturale, è anche strutturale: lo è stata fin dall’inizio del suo mandato e continua a esserlo. E’ la debolezza di un Presidente che confonde spesso i suoi istinti da uomo d’affari, assoluto padrone di un’impresa di famiglia, con le virtù da leader che si vorrebbe populista. Un Presidente che alla sua base più fedele può apparire come un carismatico capopopolo, ma che discorsi coerentemente populisti li fa solo quando glieli scrivono. E soprattutto un Presidente inserito in un sistema di governo che di populista (o di impresa d’affari, tanto meno famigliare) non ha proprio niente, un sistema che lo imbriglia e di cui non comprende neanche bene tutti i meccanismi di funzionamento. Per un biennio ha avuto la rara benedizione di essere stato formalmente a capo di un governo di partito, con i Repubblicani in controllo di entrambi i rami del Congresso. Una fortuna che Obama, ad esempio, ha avuto solo per i primi due anni degli otto delle sue presidenze. Trump ne esce non solo con un governo diviso, il che è piuttosto normale, ma anche isolato alla Casa Bianca e assediato da una miriade di inchieste insidiose.

Il discorso sullo stato dell’unione riflette queste debolezze per il modo in cui il suo filo conduttore retorico è in evidente contrasto con ciò che Donald Trump ha sempre detto e fatto e che continuerà a dire e fare – in effetti, in contrasto con ciò che Trump è. L’appello più generale è stato infatti all’unità del paese, alla speranza di governare “non come due partiti ma come una nazione”, al superamento di vecchie divisioni e paralisi politiche (non l’aveva detto Obama anni fa?), alla costruzione comune di un grande futuro. Sono le eterne buone intenzioni presidenziali qui presentate con uno stile opaco, senz’anima, e comunque senza l’indicazione di una strategia per realizzarle. La frase cruciale in proposito è suonata fuori carattere: “dobbiamo rifiutare la politica della rivincita, della resistenza, della vendetta, e abbracciare l’illimitato potenziale della collaborazione, del compromesso, del bene comune”. E’ stata applaudita con enfasi da Pelosi in piedi – con così tanta enfasi corporea da apparire sarcastica.

L’unico momento di genuina bipartisanship in aula c’è stato quando il presidente ha ricordato che oggi, nel centenario del voto alle donne, ci sono più donne che mai elette in Congresso. E le elette, quasi tutte democratiche, le deputate vestite di bianco in onore delle antiche madri suffragiste, sono esplose in una standing ovation di giubilo.

Alcune Congresswomen democratiche (al centro Alexandria Ocasio-Cortez) vestite di bianco in ricordo delle suffragettes

 

I conflitti di ieri e quelli di domani ci sono ancora tutti, e con essi il linguaggio divisivo che è riemerso anche qui come la vera cifra trumpiana. Come superare, infatti, l’impasse sul finanziamento del muro con il Messico, che il Presidente ha insistito a chiedere al Congresso in tempi ristretti, in risposta a una “crisi nazionale”, a una “questione morale”, a un pericolo criminale, a una questione di classe (i ricchi non se ne curano, ma la classe operaia ne paga il prezzo)? Evocando per l’ennesima volta, nel passaggio più lungo e sentito del suo discorso, nella sua invettiva più nota e ripetuta, la paura: le “carovane organizzate” minacciose alla frontiera, i trafficanti di esseri umani e di droga, la violenza delle gang, la prostituzione, gli onesti cittadini assassinati da illegal aliens. E ancora: come uscire dalla trappola delle indagini sul suo operato, che Trump ha definito “ridicole indagini di parte” (Nancy a quel punto ha scosso il capo) che mettono in pericolo la prosperità e sicurezza del paese? E come evitare di rinfocolare la guerra culturale sull’aborto, che invece ha rinfocolato?

Naturalmente il Presidente ha celebrato quelli che ritiene essere i suoi successi: la crescita economica e la bassa disoccupazione, le nuove politiche commerciali, la (rara) approvazione bipartisan di una riforma penale non punitiva, la sicurezza nazionale e le incursioni sulla scena internazionale… Ha rilanciato programmi, tutti da immaginare, di massicci investimenti nelle infrastrutture e di riduzione dei costi sanitari. E ha concluso con l’ottimismo forward-looking del nazionalismo eccezionalista: “Non abbiamo ancora cominciato a sognare”. E tuttavia lo slancio ottimistico non gli si addice, è artificiale, la sua visione del mondo e del ruolo dell’America nel mondo è pessimistica, piuttosto cupa. Non so se rientri nella retorica della cupezza o dell’ottimismo l’affermazione più stravagante dell’intero discorso: “Qui negli Stati Uniti siamo allarmati dai nuovi appelli ad adottare il socialismo nel nostro paese. Siamo nati liberi, e rimarremo liberi. Stasera rinnoviamo la nostra determinazione che l’America non sarà mai un paese socialista”. Un incubo da guerra fredda?

Oppure no, solo un obliquo attacco partisan ai Democratici caduti nelle mani della sinistra, degli estremisti. Sul web i pochi socialisti americani hanno gioito, la loro nuova rilevanza finalmente riconosciuta.

Malgrado gli applausi repubblicani a ogni giro di frase (in uso dagli anni di Ronald Reagan, quando i suoi uomini fecero girare il testo del discorso con l’indicazione dei punti in cui ci volevano “APPLAUSI”), Trump è un Presidente debole anche con il suo partito in Congresso. Che ora come ora è tutt’altro che entusiasta di uno scontro all’ultimo sangue sul muro, è addirittura terrorizzato che si possa arrivare a una dichiarazione di emergenza nazionale. Di nuovo, non si tratta solo di contingenze. Nel biennio passato i legislatori repubblicani non hanno dato molto ascolto alla leadership del Presidente, pur facendo finta di farlo. Hanno votato con lui quando erano d’accordo e alle loro condizioni, su leggi conservatrici ortodosse come il taglio delle tasse, o per la conferma di giudici federali anch’essi conservatori ortodossi. Ma non si sono scaldati su temi a lui specifici e cari come l’immigrazione o il protezionismo, sui quali hanno glissato. Non hanno votato contro, ma li hanno ignorati. Il Partito Repubblicano è stato meno trumpiano di quanto apparisse.

A completare la serata del 5 febbraio c’è infine stata la reazione ufficiale del Partito Democratico affidata a Stacey Abrams. E’ un rituale informale e tutto televisivo, nato negli anni Sessanta, con cui il partito di opposizione presenta la sua alternativa migliore di policies e di volti simbolici. L’anno scorso era toccato a Joe Kennedy, deputato del Massachusetts e nipote di Bob Kennedy, che parlava da una città industriale “costruita da immigrati”. Quest’anno Abrams, parlando dalla sede di un sindacato (sì, un sindacato) di Atlanta, ha lanciato due messaggi, di cui uno incarnato nella sua stessa storia, nel suo corpo. E’ una persona nuova che non ha cariche federali. E’ stata sconfitta per un pelo alle elezioni govenatoriali in Georgia, ma quel “per un pelo” in uno stato ostile del Sud è stato il suo successo: le ha conquistato un ruolo di stella nascente e di speranza del suo partito. Inoltre è una donna afroamericana, la prima ad avere questo compito, in sintonia con le molte donne, e donne di colore, che sono entrate in Congresso lo scorso novembre.

Stacey Abrams mentre replica al discorso di Trump

 

Il secondo messaggio di Abrams è nelle sue parole, nella critica non rancorosa della politica del Presidente e nell’abbozzo di una politica democratica centrata sulla giustizia economica e sociale. In Georgia Abrams si era presentata come una progressista pragmatica e ottimista, aveva cercato di conciliare l’indicazione di obiettivi radicali con percorsi prudenti, in particolare verso la riforma del sistema sanitario (universale, ma per gradi), dell’immigrazione (contro il muro), del gun control. Aveva insistito sulla difesa intransigente dei diritti civili delle minoranze contro la voter suppression. Per questo è stata scelta e questo ha ripetuto.

Se la sua sia la direzione che la leadership democratica intende prendere per uscire dal solito dilemma (cercare di sloggiare Trump mettendo insieme i suoi nemici più accesi, o i suoi sostenitori più morbidi e delusi, o una miracolistica combinazione di entrambi) è presto per dirlo. C’è una lunghissima stagione di pre-primarie e primarie da combattere, una stagione affollatissima da un cast di star o aspiranti tali.