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L’hardware comanda il mondo

Questo articolo è pubblicato sul numero 4-2024 di Aspenia

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Malgrado l’entusiasmo per il trionfo del software nell’economia, resta essenziale l’hardware – infrastrutture, produzione elettronica, capacità energetica e scala produttiva – con le sue implicazioni geopolitiche, soprattutto per la competizione tra Stati Uniti e Cina. Anche la corsa allo sviluppo dell’intelligenza artificiale è sempre più una lotta per l’accesso a risorse critiche come l’energia e la capacità di calcolo su larga scala, che richiede una enorme mobilitazione industriale. I vantaggi della Cina e quelli degli Stati Uniti.

Una fabbrica di smartphone a Shenzen, in Cina

 

Marc Andreessen è l’imprenditore che ha creato Mosaic, il primo browser web grafico, e poi Netscape, il browser di maggiore successo degli anni Novanta, venduto nel 1999 per oltre 4 miliardi di dollari. Ha poi intrapreso una carriera di grande successo come investitore con un fondo di venture capital, che ha sostenuto società come Facebook, Instagram, Skype. Andreessen ha accompagnato la sua attività con alcuni scritti e manifesti che spiegano, oltre alla sua tesi di investimento, alcune chiavi interpretative per leggere i cambiamenti del mondo attraverso lo sviluppo tecnologico.

LA SOFTWARIZZAZIONE DEL MONDO. La sua formula più celebre, risalente al 2011, è “il software sta mangiando il mondo”. In essa, Andreessen condensa la realizzazione del sogno dei cyber-visionari dell’inizio degli anni Novanta, cioè dell’epoca ancora pionieristica della rete in cui lui stesso è stato un imprenditore di successo: il sogno di un’economia globale pienamente digitale e interconnessa, con nuove e inattese opportunità di crescita per imprese che si trovano davanti barriere di ingresso sempre più ridotte. Il software non è un ambito a sé, un semplice settore, ma diviene il cuore di ogni settore economico, in grado di trasformare le imprese di tutti i campi: dalla finanza all’editoria, dalla manifattura ai servizi, dalla sanità alle infrastrutture.

Nessuno può permettersi di non investire nel software. I vincitori di questa nuova normalità del mercato saranno coloro che, con adeguati investimenti, sapranno capire la centralità del software e inserirlo al meglio nei loro modelli e processi. Il software, grazie alla sua flessibilità e scalabilità, permette di creare valore in modi inconcepibili con le tecnologie precedenti, e ciò determina un divario crescente tra le aziende basate su di esso e i concorrenti tradizionali, che rischiano di essere disarmati rispetto alla velocità dell’innovazione. Il software sta davvero mangiando il mondo, e divorerà tutti coloro che non sono preparati. Andreessen prevede che non solo cambierà il modo in cui le aziende creano e consegnano prodotti e servizi, ma trasformerà anche interi modelli di business, tramite la raccolta, l’analisi e lo sfruttamento dei dati, migliorando l’efficienza e personalizzando l’esperienza dei clienti. I vincitori della “softwarizzazione” del mondo sono le grandi aziende che integrano il software nelle proprie attività e che forniscono servizi software, ma anche le startup che sanno individuare una nicchia di mercato sfruttando le ridotte barriere d’ingresso, inserirsi nell’ecosistema giusto attraverso pochi investimenti, e poi difendere ed espandere la loro nicchia e i loro servizi.

L’insistenza di Andreessen sulle possibilità del software, dal suo punto di vista di investitore, è pienamente giustificata. Il suo compito è scommettere su aziende come Instagram che, con una forza lavoro ridotta e con l’idea giusta, sono in grado di raggiungere un valore gigantesco e quindi consentire ai fondatori e agli investitori il migliore ritorno, nel momento in cui arriva la Facebook di turno per un’acquisizione. Ciò porta avanti il processo per cui il software dei social network mangia in misura sempre maggiore il tempo degli utenti, e quindi il tempo delle persone che abitano il mondo.

MA L’HARDWARE RIMANE INDISPENSABILE. In questo trionfo del software, tuttavia, un particolare rischia di essere trascurato: affinché il software stesso esista, e quindi operi, deve esserci l’hardware. Nel momento in cui queste stesse aziende raggiungono una certa scala, devono avere luoghi fisici (di loro proprietà o di proprietà di qualcun altro) in cui i dati possano abitare, e affinché i dati vengano processati e lavorati servono infrastrutture. Gli individui hanno accesso al software attraverso alcuni dispositivi, che devono dunque essere non solo progettati ma anche prodotti da qualcuno, attraverso un insieme di componenti, materiali, processi, in una serie di fabbriche.

Ricordare questi presupposti può sembrare perfino banale, ma un corollario della tesi della softwarizzazione del mondo, portata alle estreme conseguenze, è che l’hardware nelle sue varie forme diviene una commodity: si tratta, cioè, di un elemento puramente economico che può essere acquistato al miglior prezzo dal miglior offerente, costruendo su questa base filiere interconnesse sempre più efficienti. Nel mentre, possono nascere nuovi servizi senza che nessuno si ponga il problema dei vincoli fisici e materiali, perché la potenza del software è in grado di ridurre questi dettagli a semplici voci di spesa, da tagliare il più possibile, se necessario. Tutto ciò funziona, fino al momento in cui smette di funzionare. Per varie ragioni, che da ultimo ci conducono ai vincoli che caratterizzano un mondo in conflitto, e in particolare un mondo dove il primato tecnologico viene conteso tra due potenze, Stati Uniti e Cina.

 

LE IMPLICAZIONI GEOPOLITICHE. L’esempio di Apple continua a fornire la migliore illustrazione del problema che un mondo non piatto è costretto ad affrontare. L’introduzione dello smartphone rappresenta una rivoluzione culturale ma anche produttiva: un prodotto in grado di catalizzare l’attenzione e l’interesse di miliardi di utenti, che dipendono dagli ecosistemi di Apple e degli altri attori, oltre a una supply chain che coinvolge migliaia di imprese con enormi volumi produttivi e con alcuni tasselli principali. Lo stesso iPhone, al di là degli aspetti fiscali irlandesi, non può esistere se all’operato dell’azienda fondata da Steve Jobs non si affiancano la capacità produttiva microelettronica di TSMC, l’azienda taiwanese fondata da Morris Chang, e l’enorme scala nell’assemblaggio costruita dalla Foxconn – anch’essa taiwanese – nel territorio della Repubblica popolare cinese, in particolare a Shenzhen.

Il software dell’iPhone, il suo ecosistema che consente ad altre aziende di software di prosperare, dipende letteralmente dall’hardware realizzato dagli operai cinesi. Era inevitabile che questo processo avesse conseguenze politiche, con la crescente richiesta da parte del Partito comunista cinese di inserire nella filiera dell’iPhone – prodotto che tuttora può esistere, con la mole di profitti di Apple, solo grazie al contributo fornito dal gigante asiatico – un numero sempre maggiore di aziende cinesi, con lo scopo di accompagnare lo sviluppo tecnologico del paese e di rispondere agli interessi del Partito. Ed era inevitabile anche che tutto questo fosse un problema politico per gli Stati Uniti. In un sistema conflittuale, prima o poi la questione dell’hardware si pone sempre, e non potrà essere mai superata dal successo di aziende che realizzano solo software. Se ci si deve preparare ad andare in guerra o si deve fornire assistenza ad attori che sono impegnati in operazioni belliche, non è possibile farlo solo attraverso il software.

Certo, è naturale che emergano aziende come Palantir, in grado di cogliere le esigenze di softwarizzazione degli apparati militari, che rappresentano un mercato sempre promettente per le loro necessità di modernizzazione, ma tutto questo non può abolire l’hardware e le sue necessità produttive. Proponiamo quindi una nuova formula, provocatoria ma utile per riequilibrare l’ebbrezza del software che ha caratterizzato il recente passato: l’hardware comanda il mondo. Il software continua a mangiare il mondo, perché la tesi di investimento di Andreessen sulle barriere d’ingresso e sulla digitalizzazione delle industrie rimane valida. Eppure, siccome tutto questo si fonda su infrastrutture, su produzione elettronica, su capacità energetica e su scala produttiva, l’hardware comanda lo stesso un mondo mangiato dal software. È un paradosso con cui è essenziale saper convivere, e che condiziona in modo essenziale la competizione tra Stati Uniti e Cina sulla tecnologia. Anche sul fronte dell’intelligenza artificiale.

STATI UNITI, UNA IMPONENTE MOBILITAZIONE INDUSTRIALE. Un ex dipendente di OpenAI nato in Germania, Leopold Aschenbrenner, ha pubblicato all’inizio dell’estate 2024 lo scritto Situational Awareness: the decade ahead, dedicato alla storica mente scientifica di OpenAI, Ilya Sutskever, il quale a sua volta ha lasciato l’azienda nel 2024. La sua analisi, diffusa online, si è subito collocata al centro delle discussioni teoriche e operative della Silicon Valley. Aschenbrenner ha l’ambizione di descrivere le problematiche economiche e politiche dello sviluppo di un’IA avanzata (identificata dalla controversa formula “intelligenza artificiale generale”) nel prossimo decennio. “Potete vedere il futuro prima a San Francisco”: è la formula enfatica con cui si apre Situational Awareness, che tuttavia affronta aspetti molto concreti e ci conduce ancora all’importanza dell’hardware. E, come vedremo, ci porta ben oltre San Francisco.

Secondo Aschenbrenner, la corsa verso lo sviluppo dell’intelligenza artificiale generale si trasforma in modo crescente in una lotta per l’accesso a risorse critiche come l’energia e la capacità di calcolo su larga scala. In questo contesto, il rafforzamento delle infrastrutture energetiche e dei poli di calcolo diventa un imperativo strategico per le principali potenze mondiali, in particolare Stati Uniti e Cina. La crescente domanda di energia per alimentare cluster di calcolo avanzati, composti principalmente dai sistemi realizzati da Nvidia che portano alla realizzazione di nuovi data center, sta spingendo gli Stati Uniti verso una mobilitazione industriale imponente. Aschenbrenner sottolinea come, nel corso dell’ultimo anno, le discussioni strategiche nei consigli di amministrazione delle grandi aziende tecnologiche statunitensi siano passate da investimenti in cluster da 10 miliardi di dollari a cluster da 100 miliardi di dollari, con l’obiettivo di raggiungere cifre ancora più ambiziose entro la fine del decennio.

Questo cambio di scala rappresenta una sfida materiale: approvvigionamento di acciaio, di rame, di acqua, rilievo dei contratti energetici e massimizzazione della capacità di produzione elettrica. Dalla Pennsylvania al Nevada, dall’Iowa al principale polo mondiale dei data center, la Virginia settentrionale, le aziende affrontano sfide simili in relazione alla disponibilità di infrastrutture, nonché alla capacità di rendere operativi in breve tempo i nuovi data center. Per esempio, Jensen Huang di Nvidia ha recentemente lodato la velocità con cui Elon Musk è riuscito a realizzare un data center a Memphis, in Tennessee. È in corso, insomma, una mobilitazione industriale su vastissima scala, soprattutto negli Stati Uniti.

LA RISPOSTA DELLA CINA. Cosa sta accadendo nel frattempo in Cina? Pechino sta senz’altro potenziando le sue capacità di calcolo. Il paese ha già dimostrato la sua determinazione nel colmare il divario tecnologico, investendo in cluster di supercomputer e in infrastrutture energetiche dedicate. Ad esempio, sta espandendo le proprie capacità nei centri di calcolo a Tianjin e Shenzhen, che ospitano alcuni grandi supercomputer. Inoltre, Pechino sta investendo in nuovi impianti nucleari e in progetti energetici basati su energie tradizionali, allo scopo di assicurarsi un flusso continuo e abbondante di energia per alimentare le sue ambizioni tecnologiche. Negli ultimi anni, la Cina è emersa come il polo mondiale di gran lunga più rilevante per la generazione di elettricità e pertanto, come osservato anche dall’analisi di Aschenbrenner, può utilizzare questa sua capacità specifica di mobilitazione industriale, insieme alla scala manifatturiera elettronica senza pari, per correre più in fretta nella realizzazione delle infrastrutture di calcolo. Certo, resta vero che il paese non è riuscito a colmare alcuni divari nella filiera della microelettronica, relativi in particolare alla nicchia di GPU, dominata da Nvidia, e a strumentazione e macchinari fabbricati nei Paesi Bassi, in Giappone e negli Stati Uniti per varie fasi produttive dei semiconduttori, ma i passi avanti cinesi non possono essere sottovalutati.

 

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Pertanto, proprio l’attenzione posta da autori come Aschenbrenner sulle infrastrutture può portare a una necessaria variazione all’incipit della sua opera: il futuro non si vede prima solo a San Francisco, si vede anche a Shenzhen. In particolare, a Shenzhen il futuro si è visto soprattutto in due modi nell’ultimo triennio, nella zona economica speciale originale che ha reso possibile lo sviluppo dell’iPhone e dove negli anni Ottanta Ren Zhengfei ha fondato Huawei. Questa azienda tecnologica cinese, colpita pesantemente dai provvedimenti degli USA a partire dal 2018, non è morta. Huawei ha prima affrontato una pesante ristrutturazione, attraverso una sostanziale uscita dal mercato degli smartphone con la vendita di attività ad altre aziende del polo di Shenzhen, sostenute dal governo. Poi, nel giro di un paio d’anni è tornata ad aumentare i ricavi e i profitti, ed è tornata anche nel mercato degli smartphone.

Nel mentre, aziende europee come Ericsson e Nokia non sono riuscite davvero ad approfittare della campagna contro Huawei guidata dagli Stati Uniti, e l’azienda di Shenzhen è divenuta sempre più un grande integratore dell’industria dei semiconduttori, con un rapporto sempre più stretto con la fonderia cinese SMIC e con molti altri operatori noti o meno noti. Huawei ha anche rafforzato e introdotto attività sull’Internet of Things, sull’automotive, nonché sui servizi di intelligenza artificiale per i porti e le miniere, come ricordo nel mio libro Geopolitica dell’intelligenza artificiale.

Quale altro futuro si è materializzato a Shenzhen? Si tratta del futuro intuito già 15 anni fa dall’allora quasi novantenne Charlie Munger, storico collaboratore di Warren Buffett. Munger nel 2008 si fissa così tanto su un’azienda cinese, sulla sua ambizione e sul bacino di ingegneri a cui può attingere, da costringere Buffett a un investimento da parte di Berkshire Hathaway. I due anziani signori vanno perfino a visitare i poli dell’azienda in Cina, con Bill Gates, posando per le fotografie col fondatore, il chimico Wang Chuanfu. Oggi quell’azienda di Shenzhen, BYD, ha quasi un milione di dipendenti e oltre 100.000 addetti a ricerca e sviluppo. Contende a Tesla la corona di principale produttore di auto elettriche al mondo. BYD produce le sue batterie e gestisce anche le fabbriche di semiconduttori, in un progetto di costante integrazione verticale, oltre a possedere i cargo che portano le sue auto nei mercati mondiali. Non è una questione solo di tecnologia ma di scala e di capacità produttiva: auto elettrica o no, la possibilità che operatori tradizionali come le industrie tedesche o le vecchie Big Three statunitensi possano competere con l’armata di Wang Chuanfu è ormai remota.

TRA LUCI E OMBRE, IL RILANCIO MANIFATTURIERO AMERICANO. Se il futuro dipendesse solo da San Francisco e dall’illusione dell’autosufficienza del software, gli Stati Uniti verrebbero sconfitti dalla capacità produttiva cinese. Ma non bisogna mai sottovalutare l’America e la sua voglia, la sua ansia di costruire, che fornisce un complemento all’innovazione di software e progettazione. La cronaca della tecnologia statunitense è sempre più legata a progetti infrastrutturali, nella capacità energetica e nelle varie declinazioni della produzione elettronica. I provvedimenti dell’amministrazione Biden del 2022, il Chips & Science Act e l’Inflation Reduction Act, hanno mostrato questa volontà politica.

 

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Nell’industria dei semiconduttori, il problema degli Stati Uniti rimane che il loro campione per eccellenza, Intel, affronta una crisi di lunghissimo corso, con un tentativo di rilancio che non si è mai materializzato in modo concreto dopo che i vari manager che si sono susseguiti hanno perso tutte le principali tendenze di crescita del settore, dagli smartphone ai data center per l’intelligenza artificiale. A fronte delle difficoltà – tutt’altro che risolte – che Intel ha nell’affermarsi come reale alternativa manifatturiera alle potenze dell’Asia orientale, procedono con successo gli investimenti del leader mondiale della produzione, la taiwanese TSMC, a Phoenix in Arizona. È essenziale comprendere che quelle di TSMC non sono gigantesche fabbriche isolate ma fanno parte di un ecosistema sempre più ampio che è in corso di realizzazione.

Si pensi per esempio all’importanza delle attività di un’azienda statunitense fondata da coreani, Amkor Technology: a pochi chilometri da Phoenix, a Peoria, sta portando avanti investimenti per una fabbrica di advanced packaging da 2 miliardi. Le aziende fondate da Elon Musk sono protagoniste indiscusse del rilancio manifatturiero statunitense in alcuni grandi nodi tecnologici. Gwynne Shotwell, presidente
e direttrice operativa di SpaceX, ha annunciato alla Camera dei Rappresentanti del Texas a settembre 2024 che, con i nuovi investimenti, l’azienda fondata da Musk che domina l’economia spaziale renderà Bastrop in Texas il più grande impianto di produzione di circuiti stampati di tutti gli Stati Uniti. Shotwell si dice sicura di poter battere il Sudest asiatico in termini di efficienza produttiva.

Inoltre, la capacità manifatturiera nordamericana coinvolge anche il Messico, dove la novità più significativa è l’investimento annunciato da Foxconn per la produzione di server per l’intelligenza artificiale a Guadalajara. I taiwanesi lavoreranno fianco a fianco con gli operai messicani, cioè con la forza lavoro che spesso la politica degli Stati Uniti non vuole vedere dentro il proprio territorio e che diviene invece indispensabile per diversificare rispetto alla Cina. La scomoda verità è che, senza i bistrattati operai messicani (e senza i taiwanesi che li affiancheranno), non ci saranno i data center dell’intelligenza artificiale.

In conclusione, si può vedere il futuro a San Francisco, ma perché il futuro si realizzi bisogna sempre andare altrove. Perché la forza tecnologica dell’America sia più profonda, deve essere costruita giorno dopo giorno in Arizona, in Texas, in Messico.

 

 


Questo articolo è pubblicato sul numero 4-2024 di Aspenia