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L’evoluzione della guerra siriana e il paese che non esiste più

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Dopo quattro anni, 220.000 morti, quattro milioni di rifugiati, e quasi il doppio di sfollati (cioè oltre la metà della popolazione), in Siria il problema è ancora lo stesso per gli Stati Uniti: gli islamisti. Evitare di armare gruppi che un giorno potrebbero andare a schiantarsi contro le torri gemelle. A maggio gli americani hanno quindi iniziato ad addestrare le New Syrian Forces, con un investimento di 500 milioni di dollari per circa 5.000 reclute. Le prime 60 sono costate 41 milioni di dollari: ma tra diserzioni e imboscate di Al-Qaeda, al fronte, alla fine, sono arrivati in cinque. Il Congresso, perplesso, ha chiesto spiegazioni. Non sono cinque, ha spiegato il Pentagono: sono nove.

Il fallimento dell’iniziativa americana, in realtà, era largamente previsto. Le New Syrian Forces avrebbero dovuto combattere solo lo Stato Islamico: era quindi inevitabile che i ribelli, per cui Assad rimane il nemico principale, cercassero sostegno altrove. E questa volta, per la prima volta, trovandolo. Gli eventi di questi giorni, infatti, con l’intensificarsi, e complicarsi, della guerra, derivano non tanto dall’ingresso in scena di Putin, ma più esattamente da quello che Joshua Landis, specialista di Siria dell’Università dell’Oklahoma, ha definito “l’effetto Salman”, dal nome del nuovo sovrano dell’Arabia Saudita. Salito al trono a gennaio, Salman ha rilanciato la sfida all’Iran per l’egemonia attraverso l’intervento in Yemen. E in Siria, attraverso una nuova intesa con Turchia e Qatar. Il cui risultato è stato Jaish al-Fatah, l’Esercito della Vittoria: che a febbraio, riarmato e riequipaggiato, ha conquistato Idlib, e poco dopo, Jisr al-Shughour, un crocevia strategico per avanzare verso Latakia, a ovest, il bastione di Assad, e verso sud. Verso Damasco. Soprattutto, Jaish al-Fatah è stata infine capace di coordinarsi con i ribelli del Southern Front, che combattono invece nell’area di Daraa, a sud, al confine con la Giordania – una coalizione laica, erede del vecchio Esercito libero. In poche settimane, Assad è finito in una morsa. E in più, con l’ISIS sul fianco est.

Jaish al-Fatah è però un’alleanza che include Jabhat al-Nusra, la filiale siriana di Al-Qaeda. E il dubbio, dunque, è quale tipo di Siria costruirebbe se davvero rovesciasse Assad. Cosa che difficilmente, però, si può capire da Idlib. Che è significativa perché è un capoluogo di provincia, e consente ai ribelli di istituire un’amministrazione locale, e dimostrare la loro affidabilità in termini non solo militari, ma di governo – quello che avrebbe dovuto essere Raqqa, il solo altro capoluogo conquistato dai ribelli: e subito travolto dall’ISIS. Ma Idlib è una città piccola, rurale, abitata da sunniti conservatori. Le sue 179 famiglie cristiane sono già fuggite da mesi. La vera natura di Jaish al-Fatah sarà chiara solo se e quando controllerà centri urbani più ampi e diversificati. Città come Homs. Come Damasco.

E tra gli analisti, per ora, prevale la diffidenza. Hassan Hassan, co-autore di ISIS. Inside the army of terror, ha accusato esplicitamente gli islamisti di double talk. Jabhat al-Nusra, in particolare, userebbe i gruppi più moderati, sostenuti dai siriani, per essere accettata, per radicarsi città a città: e poi eliminare i rivali, e fondare un emirato – uno stato islamico all’interno, cioè, dei confini della Siria. In effetti, Jabhat al-Nusra è stata coinvolta più volte in episodi controversi, come il massacro, a giugno, durante la confisca di alcune case, di 23 drusi, e vari attacchi contro altri islamisti – responsabili, a suo dire, di abusi e saccheggi. E Abu Mohammad al-Golani, suo comandante in capo, in un’intervista ad Al-Jazeera ha definito la democrazia “una deviazione dall’Islam”. La diffidenza occidentale, però, è generalizzata. E colpisce anche islamisti molto diversi da Jabhat al-Nusra, come l’Ahrar al-Sham, spina dorsale di Jaish al-Fatah: che invece ha sempre dichiarato che devono essere i siriani, liberamente, tutti i siriani, a scegliere la forma di governo del dopo Assad. E si è impegnata a restituire Idlib ai civili appena possibile. L’obiettivo, ha spiegato Labib al-Nahhas, suo responsabile esteri, in un editoriale per il Telegraph, è “un sistema politico che rispetti l’identità e le legittime aspirazioni della maggioranza dei siriani”, e cioè, implicitamente, la sharia: che non è solo quella del Sudan, ma anche quella di paesi come l’Egitto, la Palestina – un sistema politico, ha precisato, che non solo tuteli le minoranze, ma consenta loro di avere un ruolo attivo nel governo del paese. L’editoriale del 21 luglio non è stato che uno dei molti tentativi di contatto con gli Stati Uniti, nella consapevolezza, come l’Ahrar al-Sham ha ribadito più volte, che l’unica soluzione a questa guerra è ormai politica e non militare. Al momento, però, da Washington non è arrivata risposta.

Un rigetto generalizzato e indifferenziato dei ribelli che è speculare, alla fine, a quello della Russia, entrata in guerra contro non meglio specificati “terroristi”: i suoi primi bombardamenti non hanno colpito Raqqa, ma Jisr al-Shughour. L’intervento di Putin, tuttavia, sembra più politico che militare. Assad stesso a luglio ha ammesso che il suo esercito, tra caduti e disertori, non ha più uomini a sufficienza, ed è ora costretto a concentrarsi sulla verticale Damasco-Latakia – il 25% del territorio, ma quello più rilevante, per ragioni economiche e demografiche: la Syrie utile, dicevano già i francesi. Finora, il fronte è stato tenuto da Hezbollah, che ha in Siria tra i 6.000 e gli 8.000 combattenti: ma Hezbollah è ai limiti, troppo esposta nel sud del Libano a un possibile attacco israeliano: un impegno diretto della Russia era ormai indispensabile. Putin, però, non ha mai considerato Assad irremovibile. Anzi. Ha dichiarato dall’inizio, dal 2012, che deve essere sostituito con un accordo, non con una sconfitta: ma non che non deve essere sostituito. E proprio in questi giorni Assad, per la prima volta, si è detto disposto a un passo indietro. Con i suoi bombardamenti dunque Putin, semplicemente, mira a essere della partita. Ad avere voce e peso nei negoziati. A recuperare un ruolo internazionale sempre più incisivo.

Come tutti, d’altra parte. Perché per tutti, non solo per Putin, la guerra in Siria sembra non essere altro che l’opportunità per perseguire i propri interessi. In questo senso, il double talk non è proprio solo degli islamisti, ma anche di quanti, sul fronte opposto, professano di combattere gli islamisti. Il caso forse più evidente è la Turchia, altra nuova protagonista della guerra. Ha aderito alla coalizione contro l’ISIS a luglio, dopo i 32 morti dell’attentato di Suruc: ma per adesso bombarda più i curdi che gli islamisti – il primo mese ha colpito 300 volte i curdi, tre volte l’ISIS. Soprattutto, la Turchia non ha chiuso la frontiera con la Siria. E il suo territorio è la retrovia di molti degli islamisti. Tutte le attività politiche, umanitarie, e anche militari di tutti i gruppi ribelli, ISIS incluso, è noto, sono coordinate dalle province di Antakya e Gaziantep. Da cui entra, tra l’altro, il petrolio contrabbandato dalla Siria: prima fonte di finanziamento dell’ISIS. Che sembra essere dunque al tempo stesso il nemico e l’alleato di tutti. Nel 2014, solo il 13% degli attacchi dell’ISIS ha avuto come obiettivo il regime di Assad. E reciprocamente, solo il 6% delle 982 operazioni di antiterrorismo condotte dal regime di Assad ha avuto come obiettivo l’ISIS.

In realtà, in Siria probabilmente non ha più molto senso ragionare in termini di campi contrapposti, e dunque di vittoria e di sconfitta. Sia i ribelli sia i lealisti sono ormai frantumati non in decine, ma centinaia di milizie, spesso fedeli solo al proprio comandante. Continueranno a combattere indipendentemente da ogni accordo di pace. La novità di questi giorni non è tanto l’intervento di Putin, che non è che l’ultimo, appunto, di tanti interventi esterni, più o meno visibili – perché una frontiera tenuta aperta, in fondo, non ha meno effetti di una campagna di bombardamenti: la vera novità è la fuga dei siriani. L’ondata di profughi in Europa. Perché a essere partita, ora, è l’intera classe media, quella già rifugiata in Turchia, in Libano, Giordania, o che ancora viveva a Damasco. Quella che avrebbe dovuto ricostruire la Siria.

Ora, invece, non solo non esiste più la Siria. Non esistono più i siriani.