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L’Europa e l’obiettivo complesso dell’indipendenza energetica

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Lo scorso giugno è stata resa nota la scoperta in Norvegia, in corrispondenza di un antico vulcano non lontano da Oslo, del più grande giacimento di terre rare finora rinvenuto nel continente: 8,8 milioni di tonnellate di ossidi di terre rare. Si tratta di materie prime critiche per la transizione energetica: elementi di strategica importanza economica per l’Europa ma, allo stesso tempo, difficili da reperire. Le terre rare sono, infatti, fondamentali per numerose attività industriali cruciali nella trasformazione che il settore sta attraversando: vengono, per esempio, utilizzate nelle turbine eoliche, nei pannelli fotovoltaici e nelle batterie delle auto elettriche. E’ quasi superfluo aggiungere quanto la domanda di questi beni, nei prossimi anni, sia destinata a ancora crescere.

La scoperta del giacimento in Norvegia risale in realtà a tre anni fa, ma soltanto di recente è stato possibile fare una stima delle risorse minerarie presenti, (in particolare, la riserva ospita un tipo di carbonatite contenente elementi delle terre rare). Ad oggi, infatti, la società mineraria norvegese che ha individuato il giacimento, la Rare Earths Norway (“REN”), sta valutando la fattibilità economica dell’estrazione mineraria, con l’intenzione di iniziare il processo nel 2030. Per farlo, servirà un investimento iniziale di circa 900 milioni di euro. Questa scoperta, poi, si aggiunge a quella avvenuta in Svezia un anno fa, quando è stato rinvenuto un giacimento di due tonnellate di terre rare. Eventi che, evidentemente, fanno ben sperare per un approvvigionamento di questi materiali critici meno legato, per l’Europa, alla dominante industria mineraria cinese.

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Le attuali tecnologie per la transizione energetica infatti richiedono una grande quantità di questo tipo di minerali e metalli rari, con una domanda prevista in continua crescita nei prossimi anni. Si stima che, al 2030, l’Europa avrà bisogno di 18 volte più litio e 5 volte più cobalto rispetto ai livelli attuali per la fabbricazione di batterie per veicoli elettrici e stoccaggio di energia. Nel 2050, questo fabbisogno crescerà a 60 volte più litio e 15 volte più cobalto rispetto a oggi. Per il neodimio, ancora, già nel 2025 potrebbero servire 120 volte l’attuale domanda dell’Unione europea.

Non rappresenta un ostacolo, in questo senso, il fatto che il Paese non sia membro dell’UE. Oslo, infatti, appartiene allo Spazio Economico Europeo, che garantisce la sua partecipazione al mercato unico, e attribuisce ai suoi membri uno status privilegiato. Per queste ragioni, è considerato dall’Unione un fornitore affidabile e l’affidabilità dei Paesi produttori di materie prime critiche rappresenta una questione cruciale per slegarsi dalla dipendenza da parte di paesi considerati “a rischio”, quali, in particolare, Turchia, Sudafrica, Cile ma soprattutto Cina. Proprio per evitare che possa accadere con le terre rare quello che è successo con il gas russo, a seguito dell’invasione dell’Ucraina, Bruxelles è alla ricerca di fornitori alternativi, di giacimenti sul suolo europeo, e soprattutto, mira al riciclo delle materie prime.

È in questo contesto, quindi, che entra in gioco l’accordo raggiunto tra il governo norvegese e la Commissione Europea dello scorso marzo, quando è stato firmato un memorandum d’intesa atto ad avviare un partenariato strategico per sviluppare catene del valore sostenibili delle materie prime terrestri e delle batterie. Questo accordo rientra nell’alleanza per la transizione verde “UE-Norvegia”, annunciato, nell’aprile 2023, dalla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen e dal primo ministro norvegese Jonas Gahr Støre. Il partenariato sulle materie prime e le batterie è uno degli elementi costitutivi dell’alleanza verde Ue-Norvegia, con l’obiettivo di rafforzare l’azione comune per il clima, gli sforzi per la protezione dell’ambiente, e la cooperazione in materia di energia pulita e transizioni industriali, e che offre un quadro globale per una cooperazione a lungo termine tra l’Ue e la Norvegia. Entrambe le parti dovrebbero così far progredire scambi e investimenti sulle materie prime che siano sicuri e sostenibili.

Se la presenza di giacimenti nel suolo europeo determina un passo in avanti verso il raggiungimento dell’indipendenza energetica europea, allo stesso tempo, però, utilizzare le terre rare nelle tecnologie pulite non è ancora, ad oggi, un processo a basso impatto ambientale. Lavorare le terre rare, infatti, può avere un grosso impatto sull’ambiente: per separarle dagli altri minerali devono essere disciolte a più riprese in acidi, filtrate e ripulite, con un procedimento che può emettere prodotti tossici e anche radioattivi. Altra criticità riguarda la tempistica che intercorre, ad oggi, tra il momento dell’individuazione del giacimento e quello dello sfruttamento commerciale dei suoi minerali, che varia tra i 5 e i 10 anni.

Proprio la risoluzione di questi aspetti è oggetto del Critical Raw Materials Act (CRMA), il regolamento che istituisce il quadro d’azione con il quale l’UE punta a rendersi indipendente dalle forniture di terre rare, affrancandosi dalle sue importazioni, soprattutto da quelle cinesi. In base ad un rapporto pubblicato dalla Commissione europea nel 2022, infatti, i Paesi Ue sono ancora fortemente dipendenti dalla Cina per l’accesso a questi materiali. Pechino rappresenta il 93% della produzione mondiale di terre rare, in un contesto in cui la domanda europea sta aumentando sempre più.

L’attuale problema legato alle estrazioni sul continente europeo – che, di contro, limiterebbero l’impatto ambientale dei trasporti su lunghe distanze – e i sussistenti vincoli di approvvigionamento extra-europei rendono l’economia circolare l’aspetto più importante sul quale puntare per raggiungere l’autonomia energetica, ed è su questo che si sofferma maggiormente il Crma. Lo scopo dell’economia circolare è di raccogliere e riciclare i prodotti contenenti le materie prime critiche, così da poterle impiegare nuovamente, riducendo dunque la necessità di acquisti dall’estero. In quest’ottica andrebbero utilizzate le materie prime seconde (mps), cioè gli scarti di produzione che possono essere immesse una seconda volta nel sistema produttivo, come nuove materie prime. Puntare sulla crescita dell’economia circolare significherebbe anche prevedere adeguati finanziamenti per lo sviluppo di tecnologie più efficaci per il riciclo. Fondamentale sarà anche la riparazione degli oggetti: i prodotti elettronici, le turbine eoliche e i pannelli solari devono essere riparabili e riutilizzabili.

 

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In conclusione, l’obiettivo dell’Unione Europea è quindi quello di diminuire le importazioni di ciascun metallo strategico proveniente da un singolo Paese terzo, in particolare dalla Cina, attivando, al contrario, una produzione europea interna. In questo senso, si registrano i primi progetti di estrazione e lavorazione domestica, che devono però fare i conti soprattutto con le criticità legate ai processi di estrazione dei minerali. Un passo in avanti verso l’autonomia energetica si è comunque registrato con la scoperta del giacimento norvegese: se il progetto andrà in porto, il giacimento del complesso di Fen potrebbe soddisfare il 10% della domanda europea di terre rare.

Due punti sembrano emergere, in ultima analisi, mentre crescono gli sforzi per rendere la transizione stessa “sostenibile”, sia in termini ambientali che economici: in primo luogo, la transizione richiede comunque un mix di tecnologie e risorse naturali (visto che ciascuna fonte energetica ha le sue controindicazioni); in secondo luogo, l’indipendenza energetica di per sé potrebbe rivelarsi non praticabile se intesa in senso radicale, poiché le filiere sono lunghe e complesse, per cui semmai l’esigenza principale è quella di garantirsi forniture affidabili.