L’eco europea del voto tedesco
Quella per le prossime politiche (24 settembre) è una delle campagne elettorali meno combattute della storia tedesca, al punto che, a due mesi dal voto, Angela Merkel è serenamente partita per le vacanze. A ragione, viene da dire guardando i sondaggi: questi danno il suo partito, la CDU, al 38%, 15 punti davanti all’SPD di Martin Schulz, principale sfidante.
La candidatura di Schulz aveva suscitato speranze tra le file dei socialdemocratici, convinti che l’ex Presidente dell’Europarlamento avesse qualche chance di recuperare la distanza dai democristiani. Ma l’entusiasmo iniziale è presto scemato: una crisi sistemica attraversa la socialdemocrazia in Europa, e l’SPD non fa eccezione.
Schulz ha incentrato gran parte della sua campagna elettorale sul sociale e sulla solidarietà – declinati a livello nazionale ed europeo – ed ha pagato lo scotto di una contraddizione storico-ideologica a cui la sinistra non ha ancora trovato soluzione. Le socialdemocrazie si sono consolidate ponendosi come obiettivo lo sviluppo di uno Stato sociale sempre più avanzato ma questo è messo in crisi dalla globalizzazione e dalle ondate migratorie – la cui accoglienza pure è parte integrante del disegno solidale, ma che non sta avvenendo senza problemi in Germania. Schulz e il suo partito scontano poi il malgoverno di alcune amministrazioni locali e la vicinanza di alcune delle stesse al grande business. Ancora, la virata finale di Schulz a caccia dell’elettore mediano non sembra portar frutti. Il quadro appare quindi assi fosco, come preannunciato dai risultati di alcune tornate regionali: emblematica la sconfitta della SPD lo scorso maggio in NordReno-Westfalia, la regione federale più popolosa del paese, nonché storico feudo socialdemocratico.
Dall’altra parte Merkel – che corre per il quarto mandato consecutivo – può vantare prestazioni economiche di prim’ordine, accompagnate da un tasso di disoccupazione ai minimi storici. Questo riduce il peso della questione sociale nella campagna elettorale, mentre Merkel può apparire agli occhi dei tedeschi come simbolo di affidabilità, sicurezza e continuità. E la schiva Cancelliera, con un programma fatto per tutti – il programma presenta piena continuità con il rigore sul piano europeo, mentre a livello nazionale combina elementi tipicamente di centro-destra con altri che strizzano l’occhio all’elettore di centro-sinistra – si accontenta di non dispiacere a nessuno. “La Mutti continuerà a provvedere a tutto, come ha sempre fatto.” – si dice.
In molti la vedono così anche in Europa. Quell’Europa che negli ultimi dieci anni Merkel ha di fatto guidato – nel bene e nel male – tra le intemperie della crisi economica, securitaria e migratoria.
L’oggettiva posizione egemonica della Germania nell’UE è emersa evidente in particolare con la crisi dell’euro. Ad oggi la Germania produce più di un quarto del pil dell’eurozona – va detto, anche grazie e a discapito dei partner europei (il surplus nella bilancia commerciale tedesca, 253 miliardi di euro nel 2016, viola i limiti imposti dalla stessa UE) – ed era quindi inevitabile che assumesse un ruolo decisivo nella definizione delle condizioni dell’assistenza finanziaria agli Stati in difficoltà.
La crisi dell’euro –termine forse improprio, visto che si è trattato soprattutto di una crisi dei debiti sovrani dei Stati membri dell’euro, sviluppatasi in un contesto di instabilità finanziaria ed accentuata dall’impossibilità di controllare direttamente la moneta – ha reso visibili le differenze socio-economiche all’interno dell’Unione. La narrativa sul rischio dell’ingiusto scaricamento dei debiti sulle spalle degli incolpevoli tedeschi ha accompagnato il ribaltamento della prospettiva del Germania nei confronti del processo di integrazione. Così è stato infatti definito dall’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer il “no” categorico di Angela Merkel, nel 2008, alla costituzione di un fondo comune anti-crisi e all’emissione di eurobond, titoli di debito europei: invece di scegliere una soluzione comunitaria, la Germania ha optato per la “ri-nazionalizzazione della responsabilità”.
In uno sviluppo forse più inaspettato, a posizione tedesca si è poi imposta nell’ambito della crisi strategico-militare (inserita in una più generale crisi di sicurezza) determinata in primis dall’annessione della Crimea da parte russa. Merkel è riuscita ad evitare il confronto militare, caldeggiato dalla Francia: ha invece riunito i riluttanti Stati membri in una comune politica di sanzioni verso la Russia. Ancora, nel mezzo della crisi migratoria, fondamentale è stata la decisione della Cancelliera nel 2015 di aprire le porte del Paese ad oltre 1 milione di rifugiati siriani. Questa mossa ha posto le basi per le trattative circa il sistema di quote per la ripartizione dei migranti, e ha accompagnato la stesura del contestatissimo accordo UE-Turchia.
La posizione egemone della Germania in Europa è stata resa ulteriormente visibile dalla legittimazione proveniente dagli Stati Uniti. Le istituzioni europee per come disegnate oggi hanno provato la loro incapacità di reazione di fronte alle crisi; l’ex Presidente Barack Obama ha invece trovato nella Merkel il famoso “numero di telefono dell’Europa” evocato da Henry Kissinger. Era infatti lei che Obama chiamava nei momenti difficili, e non solo dopo che la Brexit ha indebolito il peso di Londra. La Gran Bretagna ha infatti avuto negli ultimi anni un’agenda minimalista rispetto agli affari europei; ciò l’ha resa incapace – anche agli occhi dell’alleato transatlantico – di determinare e gestire scelte e dinamiche all’interno dell’Unione.
Proprio la Brexit e il successivo avvento di Trump hanno poi, per reazione, rafforzato la Germania e la stessa UE, al punto che molti commentatori sono giunti ad evocare il passaggio simbolico della fiaccola dei valori democratici sulla scena globale da Washington a Berlino. In questo contesto, Angela Merkel ben sa che la forza della Germania – che nonostante l’aumento della spesa non è una potenza militare – deriva dalla sua posizione nell’Unione Europea. Non a caso, nel discorso pubblico, Merkel ha sempre mantenuto saldo il legame tra libertà ed Europa. “Poor old Germany” diceva ancora Kissinger, “too big for Europe and to small for the world”: l’UE rappresenta la via d’uscita da questa trappola.
Infine, la Germania è salita in modo così dirompente sulla scena anche perché, con François Hollande ancor più che con Nicolas Sarkozy, la Francia ha abdicato al suo ruolo di leader politico, di cui si era sempre servita per bilanciare la potenza economica di Berlino all’interno dell’asse franco-tedesco. Non a caso, è da questa mancanza che oggi Emmanuel Macron vuole ripartire, puntando su un meccanismo di difesa comune europea che faccia tornare Parigi in gioco sulle decisioni di politica internazionale. Quest’ultima idea conviene certamente anche alla Cancelliera tedesca, mentre più problematico appare l’approfondimento dell’integrazione in ambito economico – per il momento solo evocato da Macron.
Questa è una delle carte calate nel gioco delle elezioni tedesche, come dimostra il recente intervento del ministro tedesco delle finanze Wolfgang Schäuble, che da falco conservatore si è spinto a difendere l’operato del Presidente della BCE Mario Draghi – spesso preso di mira sui giornali tedeschi – e il quantitative easing adottato dalla banca centrale e fortemente voluto dallo stesso Draghi per stimolare l’economia europea. Schäuble ha proposto la creazione di un Fondo Monetario europeo a partire dal Meccanismo europeo di stabilità, che dovrebbe accompagnarsi ad un ministro UE delle Finanze ed un mini-bilancio UE, destinato ad aiutare gli Stati in difficoltà a fare le riforme senza soffrire troppo. La spinta integrazionista così coniugata, e avallata ufficialmente da Merkel, viene presentata come paracadute del QE (che terminerà nel 2018) ma è quasi scontato che si riveli nulla di più della perpetuazione dell’attuale politica di condizionalità – agli Stati in sofferenza verrà concessa liquidità solo a condizione che operino riforme strutturali richieste e pre-approvate da Bruxelles. Il quasi scompare e il rigore pare invece aumentare nel momento in cui si comprende come la proposta si sposi con l’ambizione personale dello stesso Schäuble ad incarnare il ruolo di ministro delle Finanze europeo.
Il destino dell’UE ha però un legame ancora più stretto ed immediato con le elezioni tedesche. Merkel –benché data per vincente – dovrà quasi certamente governare in coalizione. Due sono le possibilità principali: o perpetuare la Groβe Koalition con i socialdemocratici di Schulz, o allearsi con i redivivi Liberali, affiancati forse dai Verdi (la cosiddetta opzione Giamaica, dai colori nero-giallo-verde dei tre partiti).
La prima ipotesi sancirebbe una continuità – a meno di un improbabile successo in termini relativi di Schulz, che potrebbe cosí influire sulle posizioni tenute in sede europea su economia e integrazione. Il secondo scenario appare invece molto più incerto per l’Unione, in modo direttamente proporzionale al consenso elettorale dei Liberali. I Liberali tedeschi – al contrario della posizione ufficiale del gruppo liberale a Bruxelles, l’ALDE – sono infatti dichiaratamente per un’integrazione europea minima, che non intacchi la responsabilità individuale – anche e soprattutto finanziaria – dei singoli Stati. Sono inoltre molto vicini al mondo del business tedesco, che da sempre apprezza l’idea di un’unione monetaria ristretta e di un euro forte, anche se ciò significa disfarsi dei membri più deboli dell’eurozona.
Davanti alla crisi delle istituzioni europee, con Donald Trump alla Casa Bianca, la confusione che regna sullo scacchiere globale e le sfide della globalizzazione e dell’immigrazione, il “Wir shaffen das” (ce la faremo), pronunciato da Merkel quando comunicò ai tedeschi la decisione di accogliere un milione di rifugiati nel 2015, suona rassicurante. Ma, comunque vadano le elezioni, il grosso rischio è che la Mutti sia ora soprattutto concentrata a prendersi cura del domani dei tedeschi, tralasciando il dopodomani loro e di tutti gli europei. In prospettiva storica, il rischio è quello dipinto da Jürgen Habermas, ovvero che, dopo aver largamente contribuito a rafforzarlo per decenni, il possibile fallimento del progetto di integrazione europea sia da attribuire, almeno in buona parte, all’indecisione e alla miopia tedesche.