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Le transizioni arabe: un’innovazione politica tuttora in corso

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Le primavere arabe del 2011 furono un evento sorprendente per varie ragioni – a cominciare dalla presunta “immutabilità” dei regimi al potere in quella parte del mondo, che si dava praticamente per scontata. Un motivo altrettanto importante di sorpresa fu la quasi-simultaneità delle rivolte popolari, cioè l’effetto-contagio che si verificò davanti (e grazie) alle fotocamere degli smartphone; il coraggio con cui le piazze sfidarono i loro governanti autoritari (o comunque poco legittimi, secondo i criteri delle odierne democrazie) derivò proprio da una sorta di tam-tam politico ed emotivo capace di attraversare molti confini.

Questa fu certamente una novità, ma non si tratta affatto di un fenomeno occasionale e irripetibile: al contrario, essendo basato appunto sull’emulazione, il tam-tam può accadere ancora. Se altri messaggi (con l’efficacia e la rapidità garantite dalle reti digitali) saranno rilanciati e rimbalzati in un momento di frustrazione verso i governi al potere, potremo assistere a fenomeni analoghi nel prossimo futuro, anche su scala regionale sebbene non necessariamente in tutti i Paesi o negli stessi del 2011.

In parole povere, una complicata transizione è stata avviata, non è assolutamente conclusa e produrrà quasi certamente nuovi episodi acuti – di contestazione popolare e di reazione, più o meno dura, dei governi.

Ciò è vero per la Tunisia, che ha impostato faticosamente un processo di costruzione democratica e inclusiva ma non ha neppure iniziato a risolvere le questioni socio-economiche fondamentali. E’ vero in Egitto, dove la “parentesi” dei Fratelli Musulmani al governo e la richiesta pressante di “stabilità” hanno finora oscurato il desiderio di cambiamento. E ciò è vero in Siria, un Paese che forse non potrà più esistere nella sua conformazione del 2011, ma le cui varie componenti non accetteranno comunque di essere governate da signorotti locali (anche qualora si elimini la presenza massiccia dell’ISIS). Perfino la Libia sta cercando, tra mille difficoltà e sotto la pressione di alcune potenze esterne, di darsi una qualche forma statuale: e le prossime leadership (nazionali o locali che siano) non potranno usare gli strumenti anacronistici usati da Gheddafi per governare.

In sostanza, le forme di governo dovranno cambiare, anche quando le tentazioni autoritarie saranno forti e persistenti, per la semplice ragione che altrimenti resterà soltanto l’uso spietato della forza armata a fermare le future rivolte – e questo strumento richiede un alto livello di fedeltà dei militari ai vertici politici, cioè un ingrediente difficile da ottenere dopo anni di instabilità, guerra civile, o quasi totale anarchia.

Dunque, non dobbiamo farci ingannare dalle apparenze di una “grande restaurazione”, perché sotto le ceneri (delle rivolte) covano l’insoddisfazione e la frustrazione (soprattutto in assenza di migliori prospettive economiche), combinate al ricordo ancora vivo dell’esperienza del 2011: si tratta di condizioni propizie a nuove proteste anche diffuse e massicce. È stato notato da molti che le società arabe desiderano anzitutto pace e stabilità, dopo una specie di ubriacatura di entusiasmo democratico presto deluso. È un’osservazione solo parzialmente corretta, perché sottovaluta un altro fattore: la capacità e la volontà di emulare chi sfida il potere costituito. Se tale fattore è presente nella giusta dose, allora una prossima scintilla potrà accendere ancora il fuoco nella regione. Non dovremo perciò sorprenderci quando accadrà.

Se si alza lo sguardo dagli eventi quotidiani, l’orizzonte politico, economico e sociale si allarga, per mostrare un processo di portata storica che molti Paesi arabi stranno attraversando. Ciascun Paese è unico e diverso – come ci ricordano spesso i cittadini arabi con istintivo orgoglio nazionale – ma il contagio delle idee è reale e può essere rapidissimo. Non si può aggirare questa tensione tra dimensione nazionale (o locale), macroregionale, e perfino globale (si pensi ai prezzi delle materie prime, all’instabilità finanziaria, al parziale disimpegno americano). È necessario capire i collegamenti tra le varie dimensioni del cambiamento: che tipo di cambiamento sarà allora?

In questo tentativo di analisi e comprensione, si può adottare la prospettiva dell’innovazione, guardando al mutamento politico come a una forma particolare di innovazione (ideale, organizzativa, istituzionale). I meccanismi dell’innovazione sono infatti simili in molti campi diversi.

Gli inventori, o gli operatori più dinamici in politica – ma perfino gli organismi più semplici nei processi dell’evoluzione biologica – esplorano gli spazi dell’innovazione possibile. Si muovono spesso per prove successive, anche senza un piano preciso. Per farlo, usano i materiali e gli strumenti disponibili nell’ecosistema, visto che non possono costruire dal nulla. Il noto biologo Stuart Kaufmann, tra i pionieri delle “teorie del caos” applicate a vari settori di indagine, adottò il concetto di “adiacente possibile” per indicare le ricombinazioni di materiali o strutture preesistenti che danno vita a sistemi via via più complessi. Lo spazio “adiacente” è un futuro potenziale, una linea di sviluppo ipotetica; ma è uno spazio non infinito proprio perché vincolato dalle forme organizzative e dai materiali già disponibili e dunque influenzato in certa misura dal passato.

Uno scienziato applica anzitutto le formule matematiche che conosce al problema che gli interessa risolvere, e se possibile organizza degli esperimenti grazie agli strumenti che la tecnologia gli offre. In modo analogo, un leader politico “esplora” le idee e i programmi che potrebbero ottenere il consenso dei suoi sostenitori e fargli raggiungere obiettivi tangibili – e deve farlo usando le idee, la retorica, la narrazione della storia che la sua società è in grado di capire e condividere. Sono forme specifiche di “adiacente possibile”.

Ecco allora le opportunità e i vincoli che sono oggi di fronte alle società arabe, a cinque anni dalle “primavere”: come tentare vie innovative senza però uscire del tutto dai binari della tradizione. Le “rivoluzioni” sfociano quasi sempre in un compromesso, cioè in soluzioni “meno rivoluzionarie” di quanto si pensi inizialmente. Sono appunto innovazioni, più che stravolgimenti completi. In effetti, si può dire che una rivoluzione sia l’esito inatteso (o mal compreso) di un processo evolutivo che raggiunge un punto di svolta: così diventa anche più agevole capire che una restaurazione non ferma del tutto le forze evolutive sottostanti – come la protesta sociale, l’Islam politico, le stesse crisi di successione di cui soffrono i regimi autoritari.

Quella di innovare è un’esigenza a cui non sfuggono oggi nemmeno i più retrogradi dei leader politici nella regione mediorientale, perché anch’essi sanno che le ricette del passato avranno vita breve. Intanto, le fasce più mobilitate e insoddisfatte della popolazione sperimentano vecchie e nuove forme di pressione e protesta.

Sono tutti alla ricerca del loro “adiacente possibile”, ed è in questa zona grigia che dobbiamo guardare, verso adattamenti graduali e a singhiozzo invece che cambiamenti radicali e completi. Lì troveremo il futuro del Medio Oriente e del Nord Africa, al di là delle convulsioni delle guerre civili e delle oscillazioni dei governi al potere.