Le mosse cinesi per prendere Taiwan: una marcia che resta lunga
“In Cina ci sono 34 province, comprese Hong Kong, Macao e Taiwan”. Nuvola ha un momento di esitazione poi alza gli occhi verso le due telecamere installate sul pulmino diretto verso il centro di Xi’an, città cara al presidente cinese Xi Jinping. E aggiunge: “Dobbiamo dire sia così”.
Taiwan (ufficialmente “Repubblica di Cina”) è la “linea rossa” da non oltrepassare, l’innesco di un possibile conflitto tra Pechino e Washington. Occupata dal Giappone nell’800 e restituita solo dopo la seconda guerra mondiale, la comunista vuole riconquistarla da quando, persa la guerra civile (1927-1950), l’isola fu scelta come riparo dal governo nazionalista in fuga. O meglio conquistarla giacché – “cinese” a fasi alterne in epoca imperiale – Taiwan in realtà non è mai stata controllata dalla Repubblica Popolare, fondata da Mao nel 1949. Al tempo della guerra fredda, gli Stati Uniti la resero un baluardo dell’anticomunismo e un anello fondamentale della “prima catena di isole”, la cintura insulare dalle Curili fino al Borneo diventata a partire dagli anni ’50 il pilastro della dottrina geopolitica americana per il “contenimento” di Mosca e Pechino.
Per il presidente Xi Jinping, Taiwan è però molto di più. (Ri)annetterla è la condizione imprescindibile per realizzare il cosiddetto “sogno cinese” e riportare la Cina ai fasti di epoca imperiale. “La questione di Taiwan è nata dalla debolezza e dal disordine nazionale”, sentenziò il leader il 2 gennaio 2019, in occasione del 40° anniversario della prima lettera di Pechino a Taipei. “La Cina deve essere e sarà riunificata. È una conclusione storica maturata nel corso dei 70 anni di sviluppo delle relazioni tra le due sponde dello Stretto, e indispensabile per la grande rinascita della nazione cinese nella nuova era”. Per questo – ha avvertito Xi – “non promettiamo di rinunciare all’uso della forza e ci riserviamo la possibilità di adottare tutti i mezzi necessari” per portarla a termine.
Quel discorso, considerato tra i più duri mai pronunciati dal presidente cinese, ha stabilito un nesso esplicito tra la soluzione delle tensioni intra-stretto e il percorso di sviluppo nazionale. Per Pechino, Taiwan è innanzitutto una questione storica, come spiega Xi che venticinque anni fa ricoprì l’incarico di governatore del Fujian, la provincia cinese davanti all’isola. Ma a Taiwan è legato anche il futuro della Repubblica Popolare. La sua ambizione a diventare un “Paese socialista moderno, prospero, forte, democratico, culturalmente avanzato e armonioso” entro il centenario della fondazione (2049). Obiettivo che, nei piani di Pechino, non può prescindere dall’autonomia tecnologica, di cui Taiwan – che produce l’80-90% dei microprocessori avanzati a livello mondiale – è un tassello fondamentale.
Questo basterebbe a spiegare perché la (ri)unificazione, sebbene con tempistiche non dichiarate, costituisce una priorità per la dirigenza cinese. Ancora più impellente tuttavia è scongiurare che l’isola, autonoma de facto, dichiari l’indipendenza de iure. Un’eventualità diventata meno remota dopo la vittoria del progressista William Lai alle elezioni di gennaio. Il nuovo “presidente di Taiwan” – definito da Pechino “un separatista” – ha fin da subito riaffermato lo status quo nello Stretto. Ma ha anche sottolineato con più incisività rispetto ai predecessori che le “due Cine” sono due entità diverse e “non sono subordinate l’una all’altra”.
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Per Pechino il riconoscimento internazionale della statualità di Taiwan avrebbe un significato simbolico inaccettabile. Sarebbe come tornare al “secolo dell’umiliazione”, quando nell’’’800 le potenze imperialiste scipparono all’ultima dinastia cinese porzioni di territorio. Compresa Hong Kong. Riottenuta dal Regno Unito solo nel 1997, oggi Pechino sembra considerare la città una sorta di “laboratorio” per una futura gestione politica di Taiwan. Anche se la rapida erosione delle libertà civili sotto la formula “un Paese due sistemi” ha reso il caso dell’ex colonia britannica un monito per la maggior parte dei taiwanesi. Ma la Cina è impensierita anche dall’improvvisa premura dell’Occidente per l’isola, specialmente dopo l’invasione russa dell’Ucraina. “La questione di Taiwan è un affare interno della Cina e non ammette interferenze esterne in quanto riguarda gli interessi fondamentali della Cina e il legame nazionale del popolo cinese”, ha ammonito Xi nel suo storico discorso.
La faccenda è complicata. Dal 1971, le Nazioni Unite riconoscono la Repubblica Popolare come unica rappresentante della Cina. Solo una dozzina di paesi intrattiene rapporti ufficiali con Taipei. Sempre meno da quando, nel 2016, la presidenza taiwanese è passata dai nazionalisti del Guomindang (KMT) al Partito progressista democratico (DPP), meno dialogante nei confronti della Repubblica Popolare. Al cambio di postura, Pechino ha risposto “comprando” la lealtà dei pochi alleati dell’isola. Manovra riuscita con successo in aree del mondo, come l’Africa e l’Oceania, dove gli investimenti cinesi superano di vari zeri gli aiuti taiwanesi. Di rimbalzo, l’ascendente della seconda potenza mondiale sul cosiddetto “Sud globale” si fa sentire anche in sede ONU, l’organizzazione internazionale più rappresentativa dei Paesi emergenti. Non a caso, anche quella più conciliante nei confronti delle rivendicazioni cinesi, tanto da aver via via estromesso Taiwan dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e altre agenzie dove era presente come “membro osservatore”.
Questa crescente influenza di Pechino alle Nazioni Unite traspare dalla disputa sulla Risoluzione 2758 del ‘71. Il testo, pur limitandosi a dire “che i rappresentanti del governo della Repubblica Popolare Cinese sono gli unici rappresentanti legittimi della Cina presso l’ONU”, viene costantemente citato da Pechino per riaffermare la propria sovranità su Taiwan. Questione quest’ultima che la storica mozione in realtà ha lasciato volutamente irrisolta. O almeno è stato così fino allo scorso maggio, quando senza giri di parole il portavoce delle Nazioni Unite ha definito l’isola una “provincia cinese”.
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Intanto, tra i Paesi amici di Pechino, è diventato esplicito il “sostegno alla riunificazione nazionale”, espressione che nei comunicati ufficiali sta sostituendo il più neutrale supporto alla “politica dell’unica Cina”. L’espediente retorico utilizzato in Occidente che stabilisce l’esistenza di una sola Cina senza però collocarla in maniera definitiva sull’una o sull’altra sponda dello Stretto. “La Risoluzione 2758 rappresenta un commento sulla situazione così come era nel 1971. La sua esistenza comunque non esclude cambiamenti in futuro”, spiega ad Aspenia Wen-Ti Sung, docente del Taiwan Studies Program presso la Australian National University, commentando la nuova scelta lessicale all’ONU.
Dunque, a giudicare dai proclami, il “sogno cinese” diventerà realtà. C’è da giurarci. Come e quando l’agognata (ri)unificazione debba avvenire, però, non è chiaro. Forse non lo sa nemmeno Xi. Tra un avvertimento e l’altro, infatti, Pechino sembra voler soprattutto prendere tempo. Forse sperando prima o poi in un ritorno al potere dei nazionalisti del KMT, tradizionalmente più favorevoli al riavvicinamento alla Cina continentale. Negli Stati Uniti, obbligati per legge ad armare Taipei (ma non a difenderla in caso di guerra), circola invece una data: il 2027. L’anno in cui Xi – secondo un discorso molto citato negli ambienti militari americani – avrebbe chiesto all’esercito di cinese di “essere pronto a invadere Taiwan”.
D’altronde, negli ultimi anni Pechino ha incrementato esponenzialmente le esercitazioni militari. La visita a Taipei dell’allora presidente (Speaker) della Camera degli Stati Uniti, Nancy Pelosi, nell’agosto 2022, ha sancito una vera svolta. Da allora ogni giorno vengono registrate incursioni navali e aeree nello Stretto, talvolta con sconfinamenti oltre la cosiddetta “linea mediana”; confine di demarcazione non ufficiale che per decenni ha separato Taiwan dalla Cina continentale, ma che Pechino ormai non riconosce più.
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Se le manovre rappresentino davvero i primi tamburi di guerra, però, è ancora tutto da vedere. L’impressione è infatti che lo sfoggio di muscoli serva principalmente da una parte a testare la prontezza della difesa taiwanese. Dall’altra a sfiancare psicologicamente il governo progressista così da indurlo ad abbandonare le sue ambizioni internazionali. Peraltro, più che a un’invasione le operazioni condotte dalle forze armate cinesi sembrano preludere all’imposizione di un blocco navale. Non necessariamente di natura militare, considerato l’impiego sempre più frequente della guardia costiera cinese in acque contese. Interrompere le forniture di beni essenziali permetterebbe di mettere in ginocchio l’isola senza scatenare una guerra, a cui Washington non ha mai chiarito se parteciperà.
In effetti, leggendo bene tra le righe, la dirigenza cinese il più delle volte auspica di perseguire la propria missione con mezzi pacifici. Forse consapevole, come dimostrano varie simulazioni, che la vittoria in un confronto armato sarebbe tutt’altro che certa, oltre che estremamente costosa. L’impraticabilità di “un Paese due sistemi” non implica la rinuncia a un’annessione “morbida”. A gennaio uno studio dell’Università di Xiamen (poi ritirato) consigliava di istituire sulla terraferma un’area dimostrativa dove testare le politiche da mettere in pratica una volta riconquistata Taiwan. Secondo gli autori, queste attività aiuterebbero a velocizzare il processo di “riunificazione” plasmando le dinamiche politiche dall’interno e consolidando l’influenza delle forze “anti-indipendenza”.
La ricerca, per quanto rimasta in ambito accademico, non spunta dal nulla. Lo scorso anno nel Fujian è stata annunciata la costruzione di una rete di trasporto multidimensionale integrata che “renderà tecnicamente possibile costruire un trasporto ad alta velocità che collegherà la provincia con Taiwan.” Anche sfruttando la prossimità geografica delle isolette Matsu e Kinmen, controllate da Taipei ma situate a una manciata di chilometri dalle coste cinesi. Insomma, nei piani di Pechino, ponti e ferrovie sono preferibili ai missili. All’espansione delle infrastrutture la Repubblica Popolare affianca politiche di integrazione (come agevolazioni sui permessi di residenza) che strizzano l’occhio ai giovani e alle aziende taiwanesi, in passato molto suscettibili al fascino della dirompente economia cinese.
Va detto che per il momento la riunificazione economica non sembra molto più praticabile di quella manu militari. Un po’ per via del clima politico, un po’ perché l’economia cinese non attrae più come negli anni della distensione intra-stretto, quando a Taipei governavano i nazionalisti. Tanto che, secondo un recente studio del Center for Strategic and International Studies, oltre il 57% delle circa 610 aziende taiwanesi intervistate alla fine dell’anno scorso si stavano trasferendo dalla Cina continentale o erano in procinto di farlo. In aumento anche le imprese a voler lasciare la stessa Taiwan, dove il governo Lai ha limitato gli scambi intra-stretto (anche culturali) con il movente della sicurezza nazionale.
Non aiutano le minacce. Mentre la popolazione dell’isola è ormai assuefatta alle sortite dell’aeronautica cinese, la condanna a nove anni per “separatismo” comminata recentemente da Pechino all’attivista Yang Chih-yuan (la prima in assoluto contro un taiwanese) difficilmente riscuoterà le simpatie della popolazione dell’isola. Se il governo comunista promette a parole di voler perseguire solo i politici “indipendentisti”, in realtà a scontare il clima intimidatorio sono per ora soprattutto i comuni cittadini. Secondo le autorità di Taipei, diversi casi dimostrano come i taiwanesi che si recano in Cina “per partecipare ad attività accademiche, economiche, culturali, religiose o per visitare parenti e amici e altre attività di scambio vengono interrogati e sottoposti a limitazioni delle loro libertà personali”.
Insomma, se l’importanza di Taiwan per Pechino è fuor di dubbio, la strategia per (ri)conquistarla resta fumosa e contraddittoria. La marcia di Xi verso la (ri)unificazione appare ancora molto lunga.