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Le città “bricolage”: una sfida e una speranza per le società urbane

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Le città contemporanee – soprattutto, ma non solo – le città europee, sono città bricolage, città patchwork, città composte da parti e da luoghi che incarnano storie, valori, tempi differenti. La loro struttura e i cambiamenti che vivono si accostano alla logica dell’evoluzione biologica: in particolare a quell’aspetto della storia del vivente per cui la massima parte delle innovazioni non deriva da creazioni ex novo, ma da un riuso sistematico delle strutture preesistenti, che si trovano a esercitare nuove funzioni e entrano a far parte di reti sempre più ampie e interconnesse.

Grazie a questa logica, i sistemi viventi hanno saputo acquisire e conservare una notevole flessibilità e  resilienza, che si sono rivelate decisive quando si tratta di sopravvivere nelle fasi di drammatiche trasformazioni ambientali. Tutti i livelli dei sistemi viventi oggi recano traccia di questa capacità di attribuire nuove funzioni ad antiche strutture: è una caratteristica decisiva dei genomi, delle cellule, degli organismi nel loro complesso.

Città evolutiva

La città bricolage dei nostri giorni è una città evolutiva. Il cambiamento, la discontinuità, l’innovazione non comportano più pesanti azzeramenti del tempo storico, non sono più accompagnati da distruzioni e da ricostruzioni invasive; sono invece ottenute attraverso radicali trasformazioni nel senso e nelle relazioni interne dei luoghi.  In questo senso l’onnipresenza di aree industriali, portuali e ferroviarie dismesse in tutte le città grandi e piccole del nostro continente è una grande opportunità non solo urbanistica, ma anche politica e culturale.

Ma il riuso funzionale è solo un capitolo, certo importante, di un più generale riuso simbolico, che nella città post-industriale trova lo spazio per nuove connessioni, nuovi ibridazioni, nuove interpretazioni di percorsi e confini.  Nella città evolutiva conservazione e innovazione hanno innescato un circolo virtuoso: una città attenta al riuso urbanistico e simbolico è anche in grado di approfittare al meglio dell’odierna architettura creativa, contraddistinta dall’originalità delle scelte in termini di forme e di materiali.

È difficile fare un bilancio delle prospettive e delle implicazioni comportate da questa città bricolage, perché è a tutt’oggi in pieno divenire e perché – per definizione – può assumere forme assai diversificate. Vi sono però alcuni aspetti essenziali e ricorrenti di questo fenomeno emergente, condivisi dalla massima parte delle città europee del ventunesimo secolo:

–          un uso strategico dei trasporti pubblici, in particolare elettrici, non solo per ridurre drasticamente l’inquinamento ma anche e soprattutto per liberare il tempo dei cittadini;

–          un policentrismo spaziale, per cui alle relazioni “centro-periferia” si sostituiscono flussi reticolari in molteplici direzioni, e – insieme – un policentrismo temporale, per cui alle relazioni “ore deputate al lavoro-ore deputate al tempo libero” si sostituiscono agende personali e professionali molto individualizzate;

–          l’emergenza di città-regione in cui si integrano le tradizionali identità storiche, che peraltroaspirano a mantenere comunque le loro caratteristiche singolari;

–          un uso strategico delle aree dismesse, divenute aree multifunzionali in cui le esigenze economiche si connettono con le esigenze culturali: con ciò stesso esse divengono “spazi intermedi” ove pubblici e linguaggi eterogenei possono incontrarsi e interagire con notevole intensità;

–          uno sfumare delle rigide distinzioni fra cultura “alta” e culture popolari e giovanili, per valorizzare appieno la ricchezza e la creatività delle esperienze individuali e collettive;

–          una nuova considerazione della natura, che diventa un partner importante dello sviluppo urbano: essa esce dalla condizione fondamentalmente marginale di “specie protetta” e diventa invece un fattore di qualità per gli spazi delle città; per tornare a disseminarsi il più possibile negli spazi della città;

–          una nuova valorizzazione delle dimensioni artistiche ed estetiche, intese non come semplici elementi decorativi ma come contributi essenziali alla qualità della vita e delle relazioni;

–          una reinterpretazione della funzione pubblica, concepita non più come dirigistica centralizzazione ma come luogo e strumento del coordinamento e del supporto per lo sviluppo dei progetti di vita individuali e collettivi;

–          un interculturalismo che non annulla e che non irrigidisce i confini fra le culture, e che tende invece ad identificare e a sviluppare le zone di ibridazione e di sovrapposizione fra le tante diversità messe in primo piano sia dai processi di individualizzazione che dai processi di globalizzazione.

Il paradosso dell’interculturalismo 

Per chi sostiene il valore positivo dell’interculturalismo questo è indubbiamente un momento difficile, visto che stiamo assistendo almeno in una parte della popolazione a una “chiusura della mente europea”. A lungo andare, questa rischia di danneggiare più noi che il resto del mondo, e in particolare quella creatività e quello spirito di innovazione che nei secoli, fra alti e bassi, ha caratterizzato le culture del nostro continente. 

Dobbiamo però osservare che i cittadini delle grandi città europee, nelle quali le diversità e le relazioni interculturali sono da tempo un fatto compiuto, si comportano in maniera assai diversa dai cittadini dei piccoli centri e delle nuove urbanizzazioni diffuse sul territorio: paradossalmente (ma non tanto) la paura dell’immigrazione e dell’interculturalità è diffusa laddove fino ad oggi gli immigrati e le culture altre sono una rarità, e talvolta persino assenti. Se analizziamo molti dati elettorali recenti vediamo questa difformità espressa chiaramente su scala pan-europea. 

Così a Parigi, Londra, Berlino, Vienna i movimenti nazional-populisti non hanno sfondato: ottengono un consenso nettamente inferiore alle medie nazionali. E ancora a Vienna, a Berlino e in altre città tedesche grandi e medie i Verdi riscontrano risultati elettorali a doppia cifra, quale segno di un’opinione pubblica volta consapevolmente alla transizione verso le energie rinnovabili. Ricordiamo inoltre come nel referendum svizzero volto alla limitazione dell’immigrazione, le maggiori opposizioni siano venute da Zurigo e da Ginevra, dove il ‘No’ ha vinto nettamente.

Nelle città europee post-industriali gli esiti più positivi hanno luogo quando i progetti politici, sociali e urbanistici si mostrano capaci di coniugare i processi di individualizzazione, che approfondiscono l’unicità e la singolarità di ogni itinerario personale, e le esigenze di integrazione, di interrelazione e di ibridazione reciproca fra questi itinerari, spesso assai disparati ed eterogenei: senza un adeguato e un accogliente contesto collettivo la creatività dei individui e dei gruppi rimane inevitabilmente inespressa e carente.

Oggi l’autonomia individuale e l’interdipendenza fra gli individui e le collettività sono due prospettive valoriali che non possono che fecondarsi a vicenda. L’approfondimento dei progetti di vita personali può avere successo solo entro un sistema di garanzie e di supporti incrociati atti a far emergere un nuovo senso di solidarietà civica e, in definitiva, una nuova forma di cittadinanza fondata sull’intreccio indissolubile di unità e diversità.

La posta in gioco è quella di una città creativa in cui si possano moltiplicare le occasioni di incontro tra individui, gruppi, linguaggi, competenze, punti di vista eterogenei e diversificati: solo con una molteplicità di incontri e di relazioni, in buona parte non programmati e non direzionati, le culture dei singoli cittadini e dei singoli gruppi riescono a produrre una visione collettiva in grado di affrontare le sfide locali e globali dei nostri giorni.

La domanda cruciale, naturalmente, è se le nuove culture urbane emergenti siano in grado non solo di affrontare e di vincere le sfide della convivenza che si moltiplicano al loro interno, ma anche di coordinare e di trascinare le varie culture interne alle loro rispettive nazioni, che oggi appaiono eterogenee e per taluni versi divergenti, con una seria opposizione fra chi è aperto alle sfide del ventunesimo secolo e chi riecheggia un passato immaginario – un nostalgico “secolo lungo” (l’ottocento e gli inizi del novecento) basato sull’autorità assoluta degli stati nazionali, dimenticando totalmente le catastrofi che ne sono seguite.

Nuove aspirazioni

Le aspirazioni delle città europee dei nostri giorni si pongono in netta discontinuità con le città dei decenni centrali del ventesimo secolo, che aspiravano a divenire città a misura d’auto, esaltando la velocità e comprimendo il tempo dei suoi abitanti.  In questa visione vi era posto solo per le origini, per le mete, e per le esigenze strettamente funzionali dei percorsi quotidiani: casa-lavoro-tempo libero. Fra questi attrattori onnicomprensivi si collocava la zona grigia dei non luoghi, dei parcheggi e dei nodi di interscambio, attraversati senza alcuna attenzione e anzi con una forte impazienza. Ma, a poco a poco, questa zona grigia si è dilatata ed è quasi diventata incontrollabile, minacciando di isolare e di marginalizzare anche i luoghi tradizionalmente deputati alle interazioni sociali, e rinchiudendo gli individui e le collettività in mura simboliche da loro stessi costruite.

Oggi abbiamo preso congedo da questa visione.  Di contro, non vi è solo un richiamo storico, ma anche la prospettiva di una reinvenzione concreta della città del flâneur, narrata in modo illuminante da Baudelaire e da Benjamin: di una città in cui il percorso quotidiano di ogni cittadino sia pieno di opportunità, in cui il viandante sia sollecitato, perturbato, arricchito da incontri, sorprese, eventi serendipici.

Sul piano progettuale, si tratta in primo luogo di elaborare interventi volti all’edificazione di aree pedonali, greenways, piste ciclabili, nuove agorà, caffè, piazze telematiche e alla loro integrazione con gli assi di trasporto, soprattutto pubblico e solo in secondo luogo privato.  Ma, in termini ancora più generali, si impone la necessità di trasformare i non luoghi del presente in nuovi luoghi integratori, di arricchire la qualità degli spazi in cui i cittadini transitano e si incontrano per aiutarli a riappropiarsi di un tempo “denso”, dedicato alla costruzione di nuove relazioni e alla tessitura di nuove reti.

La posta in gioco è quella di costruire una città dell’esperienza che dilati il tempo e la diversità delle sue componenti e dei suoi attori, al fine di un ampliamento continuo e costruttivo degli spazi delle possibilità individuali e collettive.