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L’azzardo di Duterte e la scommessa cinese

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Un presidente come Rodrigo Duterte, che si è candidamente paragonato a Hitler, è un uomo abituato a condurre giochi pericolosi. È un leader che, eletto nel maggio scorso, ha promesso di sanare la piaga del traffico e consumo di droga nelle Filippine uccidendo tre milioni di tossicodipendenti, prendendo a modello proprio la Germania nazista. Ma l’ultimo tavolo che ha aperto è forse troppo azzardato, visto che i giocatori coinvolti sono le potenze più importanti del mondo: Cina e Stati Uniti.

Manila è legata a Washington da fortissimi rapporti storici, militari ed economici. Fin dalla fine della Seconda guerra mondiale, quando le Filippine hanno ottenuto l’indipendenza dopo una dominazione quarantennale americana seguita dall’occupazione giapponese, gli Stati Uniti sono rimasti i loro principali alleati. Il patto di reciproca difesa firmato nel 1951 con gli Usa è ancora oggi per l’arcipelago la più grande garanzia di sicurezza davanti alle testate nucleari cinesi e alle incursioni navali di Pechino verso le sue coste. Nonostante l’abbandono da parte dei soldati americani di due grandi basi militari nel nord nel 1992, dal 2000 un contingente di 1.200 truppe americane di élite è schierato nel sud delle Filippine e dal 2014, con la firma del Enhanced Defense Cooperation Agreement (Edca), gli Usa hanno guadagnato l’accesso a cinque basi militari locali.

Anche dal punto di vista economico il legame è quanto mai saldo: se il Giappone è il primo partner commerciale delle Filippine (18,7 miliardi di dollari è il valore complessivo dell’interscambio) e la Cina è il secondo (17,6 miliardi), gli Stati Uniti sono il terzo con una cifra comparabile (16,5 miliardi) e Singapore, un altro alleato Usa, è il quarto. Il 42,7% delle esportazioni filippine va verso i Paesi alleati degli Stati Uniti, contro il 10,5 che va alla Cina e l’11,9 a Hong Kong. Gli Stati Uniti inoltre sostengono le rivendicazioni di Manila sulle isole contese da Pechino nel Mar Cinese meridionale. Pechino vorrebbe trasformare le isole in basi commerciali e militari, ma i diritti filippini sono stati confermati anche dalla sentenza della Corte permanente arbitrale dell’Aja, che il 12 luglio ha definito infondate le pretese cinesi sul 90% del Mar Cinese meridionale.

A prima vista, nessuno metterebbe in discussione una simile rapporto, ma a parole è esattamente quello che Duterte sta facendo. Dopo aver definito Barack Obama “un figlio di p…” alla vigilia di un importante vertice bilaterale con gli Usa, ovviamente annullato, il presidente delle Filippine ha messo in discussione l’accordo Edca firmato due anni fa dal suo predecessore, affermando che il suo esercito non condurrà più esercitazioni militari con gli americani.

Infine, nella sua recente visita di Stato in Cina, dal 18 al 21 ottobre, ha annunciato la “separazione dagli Stati Uniti” in favore di Pechino e del suo “corso ideologico”. In cambio, ha ottenuto 24 miliardi di dollari in fondi e investimenti: 9 miliardi di prestiti a tassi irrisori, 3 miliardi di crediti con la Bank of China, oltre ad accordi economici e commerciali per 15 miliardi. In più ha rinegoziato con la Cina l’accesso dei pescherecci filippini allo Scarborough Shoal, una delle zone al centro del contendere nel Mar Cinese meridionale, che secondo Manila era occupata illegalmente da Pechino. A quanto dichiarato dal segretario della Difesa, Delfin Lorenzana, tra il 17 e il 27 ottobre solo due navi cinesi hanno pattugliato quelle acque, senza interferire con i pescatori filippini.

L’America non è rimasta a guardare mentre Manila fa il doppio gioco, e ha certamente attivato i canali diplomatici in modo energico, tanto che al ritorno da un viaggio in Giappone il presidente ha ammorbidito i toni: “Quando ho parlato di separazione, mi riferivo alla politica estera delle Filippine, che nel passato e fino a quando sono diventato presidente ha sempre seguito quella degli Stati Uniti”. Duterte ha invece rivendicato una linea più indipendente e attenta agli interessi dell’Arcipelago che a quelli degli alleati.

In diplomazia però contano i fatti, non le parole, soprattutto se si tratta di Duterte, un presidente che in quanto a retorica  farebbe impallidire Donald Trump. Soprannominato il “giustiziere”, Duterte ha vinto le presidenziali del 9 maggio con quasi il 40%, superando il rivale di 6,6 milioni di voti. Un risultato incredibile per un politico che, in un paese a stragrande maggioranza cattolico (oltre il 90 per cento della popolazione), si è permesso di definire (anche) papa Francesco un “figlio di p…”. Tuttavia, in una delle sue ultime uscite, Duterte ha dichiarato di avere avuto un colloquio con Dio, di cui in precedenza aveva negato l’esistenza, nel quale Dio gli avrebbe imposto di smettere di bestemmiare. Come si vede, una personalità davvero vivace e, per così dire, ricca di sfaccettature.

Duterte ha vinto le presidenziali promettendo di sradicare il traffico di droga, uccidendo tutti i trafficanti (“consiglio alla gente di aprire molte imprese di pompe funebri. Perché saranno piene. I cadaveri li procurerò io”). La fama di duro se l’è fatta a Davao, metropoli di due milioni di abitanti, dove è stato sindaco per 23 anni di fila. Da primo cittadino ha trasformato quella che era una delle città più pericolose delle Filippine in una delle 10 città più sicure del mondo, secondo Numbeo. Da quando è diventato presidente, i cosiddetti “squadroni della morte” hanno già ucciso nel paese più di tremila persone legate alla droga. Gli omicidi sono avvenuti tutti durante sparatorie, senza processo. Dall’1 luglio, altre 1725 “personalità della droga” sono state uccise a sangue freddo e Duterte in persona ha annunciato di aver compilato una lista di proscrizione con un 11 mila nomi illustri. Negli scontri a fuoco sono morti anche alcuni bambini, definiti “incidenti di percorso”.

Alla luce delle realtà strategiche, però, bisogna aspettare a credere che le Filippine volteranno davvero le spalle agli Stati Uniti. Anche perché secondo un sondaggio pubblicato prima della visita a Pechino, l’apprezzamento del popolo filippino nei confronti degli Stati Uniti supera addirittura il 70 per cento. E il presidente ha dimostrato di essere molto sensibile agli umori del popolo, che è estremamente nazionalista e quindi poco incline a fare sconti a Pechino sulle contese nel Mar Cinese meridionale.

Se Manila però dovesse davvero stravolgere la sua politica estera, si tratterebbe di un enorme fallimento per il Pivot to Asia di Barack Obama (e in parte di Hillary Clinton), perché Washington perderebbe uno dei suoi principali alleati in chiave anticinese. Se Duterte fa sul serio, o se si tratta solo di retorica per strappare accordi alla Cina, lo si inizierà a capire tra un mese, quando alti ufficiali americani e filippini si incontreranno  per decidere le collaborazioni militari tra i due alleati per il 2017.

L’incontro doveva svolgersi il 24 ottobre ma è stato spostato al 24 novembre per via delle elezioni americane. È in questa sede che Manila potrà dimostrare sul serio di voler cancellare esercitazioni militari e mettere in discussione gli accordi vigenti, dando corpo e contenuti a quella che finora è solo una grande operazione retorica del presidente Duterte